A volte... spesso in realtà

Ritratto di Massimiliano Magli

A volte mi chiedo se sia possibile farcela...
Scrivo in vacanza queste righe. E vacanza sa di libertà... totale.
Non ce ne sono di storie...
Essere in vacanza significa poter pensare in questo mondo che abbiamo tanto abbruttito. Ci siamo creati la sconfitta del dover avere una vacanza.
Io non stacco mai per deformazione, ma anche per necessità, e sogno il giorno in cui, senza pensione, potrò quanto meno godermi un dondolo e riprendere i miei libri.
A voi questa storia farà sorridere, a me no. O meglio, sorrido anch'io, ma la prendo sul serio. E' una storia lunga i 41 anni della mia vita: l'ho scelta, per carità!
E ho sempre saputo che pur lavorando come un mulo da lavoratore libero, di una pensione dignitosa dovrò farne a meno. E credo sia giusto così perché la politica che ci siamo scelti non dà, se non raramente e immeritatamente, la possibilità di vivere serenamente la nostra vecchiaia (fermo restando che possiamo cambiarlo questo mondo!).
Però in compenso ho fatto a meno di aziende che mi imponevano cose che non volevo, di banche che mi imponevano di vendere derivati o titoli farlocchi, di fabbriche che mi imponevano di fare lo stesso gesto migliaia di volte al giorno... e anche di un bel po' di tristezza per dover avere a che fare con gente che amavo ma che sempre mi considerava un avversario.
Già, io sono un NON agonista e loro, ossia larga parte del prossimo, non lo accetterà mai.
Per questo amo Ugo Foscolo...
Perché, pur senza perdere un patria fisica, l'ho persa ogni volta che ho obbedito alla mia coscienza e al mio istinto...
Non perdette una patria Foscolo, per quanto persa fisicamente: perché nel cuore la ebbe sempre. Perdette la gioia di potervi vivere, ma nessuno ne poté cancellare la memoria...
Così io e tanti più in gamba di me.
E' vero, potevo sfruttare la mia laurea, ma anche qui si è posto il problema: laurearsi con lode in nel nostro mondo per poi accedere all'insegnamento con mille balzelli è un'offesa paurosa al tuo cervello... Una volta laureato devi fare strane cose: partecipare a concorsi che non ti danno nulla, ammesso che i concorsi siano per te, studiare di nuovo (ma questa volta libri più insulsi di quelli dell'università) e poi restare a piedi a guardare... Poi, oltre ai concorsi, ti chiedono la scuola di specializzazione, che non è una scuola (vedi il maledetto Sis per i docenti) ma una presa per il culo. E se fosse stata scuola, perdonatemi, sarebbe stata un'altra presa per il culo, perché, ditemi voi, in quale pianeta uno studia dai 5 ai 25-26 anni senza avere in mano un titolo per poter lavorare. Ma tranquilli: adesso per insegnare o esercitare non c'è più nemmeno questa gavetta, c'è il nulla: ingegnere o letterato che tu sia. Ci sono CASTE.
O ti abitui a essere precario e ad abbandonare (e rovinare emotivamente) classi di studenti in continuo oppure non conti nulla (secondo loro). O ti abitui a prendere per i fondelli gli altri con la tua CASTA oppure non conti nulla (secondo loro).
Allora torno a dire quanto amo potermi beare in futuro di un dondolo e dei mie libri che, credetemi, sono qualcosa di straordinario... se verranno di nuovo, visto che loro stessi mi schifano per le ore che li abbandono sul comodino trascurandoli con il mio amatissimo lavoro, eppur lavoro.
Del resto sono in «colpa»: anche per la carta stampata, dopo cinque anni di gavetta, quando fui chiamato a 25 anni in redazione a lavorare, preferii tornarmene a casa, ultimato quasi un anno di prestazione, vedendo come si lavorava, con quali contratti (di nuovo a termine e precari) e soprattutto riguardando il mio praticantato precedente: cinque anni appunto, che bastavano più che mai - almeno per me - per poter avere un normale lavoro per così dire «intellettuale». Certo, magari nei 12 mesi successivi avrei avuto altri due o tre contratti e l'assunzione definitiva... ma ero giovane e immortale... Non aveva senso rovinarsi così...
Oggi sono un padre di famiglia e lo penso ancora, meno giovane, più mortale. Non ha senso rovinarsi così.
Non è tutto: considerai persino miserrimo lo stipendio (pensate un po') e per rispetto non ve lo dico visto che mi definireste un «paraculo arrivato».
Ma cari i miei lettori, vi basti sapere che la libertà ha un cedolino paga immensamente superiore.
Vi basti sapere che ho visto morire pochi anni dopo per infarto e altre amenità persone che avevano scelto di starsene seduti per tutta la vita in redazione... Ma questo è egoistico: vi basti, invece, più in generale, sapere che di quanto si accumuli in denaro in una vita non c'è nulla che possa definirvi migliori di chi ha scelto la libertà e abbia avuto la sorte di accarezzare una volta di più in un giardino fiorito i propri figli nella loro presunta povertà....
Sapete dove sbuca questo discorso?
Nel banale: perché, ma non ci voglio scommettere, se andremo avanti così il tempo libero sarà la norma, la salute fisica la norma, la cultura la norma, e i lavoratori intesi in senso classico una tragedia da cui rifuggire.
Oggi lavoro ancora nella carta stampata, ma sul territorio e con un contratto, precario finché vuoi, ma precario quanto è il potersi dire «libero di stare con la mia vita». E di questo ne sanno qualcosa migliaia di dottorandi o dottorati o professori e accademici che per una vita si trovano «lì per lì» ma con il disdoro di volersi sentire «lì per là»: io il «là» lo lascio ad altri. Io ho conquistato anche il «lì per lì» che me lo sono preso in casa e oggi cresce con me con una solidità da dipendente statale ex ante.
La gioia della mia vita è quella che immaginavo con elucubrazioni a dir poco fantasiose quando mi avvicinavo ai 21 anni.
Sapete cosa accadde in quel periodo?
Oh, certo che non lo sapete. E' una mera domanda retorica.
Accadeva che al risveglio, ogni giorno per non so quanti giorni, battevo il capo contro la testiera del  letto e mi disperavo per la fine della mia gioventù... Oh, quanto avevo ragione!
Quando raccontavo ai miei amici quanto devastantemente belli e irripetibili fossero i giorni che stavamo vivendo.
Per fortuna era un gruppo di amici che sognava, anche se mi ripetevano che avrei fatto «la fine di un barbone a forza di credere in tanti sogni e nel fatto che quegli anni sarebbero stati irripetibili se non avessimo cambiato il mondo». E io barbone mi sento, ma come il barbone che alla mattina deve procurarsi da vivere e procurar da vivere a chi ha messo al mondo.
Chissà che noia nel sentir raccontare ancora la storia di uno che credeva in un mondo migliore e che si innamorava del voler bene agli altri... Già anche questa è la mia magnifica tara, se così volete dire... Ma non ditelo...
Io sono uno che crede agli amori promessi in spiaggia. Figuratevi il resto! Ma che direste se quegli amori in spiaggia, ossia quelle occasioni che parevano «utopistiche», a me hanno portato immensa felicità e realizzazione?
Negli stessi giorni da ventenne, e anche negli anni precedenti, avevo la gioia e il tormento di chiedermi quanto bello (se fosse venuto) sarebbe stato vivere e crescere con un figlio... E questa è stata una immensa fortuna nella mia vita... Ne ho avute altre, come quella di genitori affettuosi e pronti a superare i loro egoismi per farci crescere con amore.
Dai 20 anni ai 34: ci sono voluti 14 anni prima di avere il primo di tre figli...
E' stato uno spavento all'inizio. Come ogni volta che sogni il trapezio del circo, salvo poi terremotarti il cervello quando te lo trovi davanti.
Al terzo figlio non dico che sia stata una passeggiata, ma quasi. Eppure la gioia è stata con lo stesso grado Richter della prima.
Oggi, pur con le fatiche economiche di una nuova casa da costruire, mi sento l'uomo più felice del mondo...
Sapete qual è il problema: che mi sentivo tale anche 20 anni fa.
Appaio un nevrotico, a volte un idiota (lasciatemi la capacità di autoanalisi che vi assicuro avere), mai tuttavia, nella mia libertà totale, mi sono sentito scansafatiche... Anche quando ridevo di gioia per la mia libertà...
Allora vi dico, coltivate la speranza con il picco e il badile, come si coltiva l'orto: fatica e sudore pagano sempre se affiancati al sogno... Non devastatevi di luoghi comuni: non esiste un mestiere migliore dell'altro. Nè, possiamo giudicare chi ha scelto strade diverse da noi...
Amate.
Amate il prossimo come voi stessi.
Non so dove né quando questa frase attribuita a Gesù possa essere davvero mai stata detta. Confido in un uomo che abbia avuto quel nome o forse diverso, ma nel senso di quelle parole che tuttavia hanno predicato anche greci antichi e tanti saggi prima di lui...
Ma prima ama te stesso, impara a farlo, e ogni giorno lo sforzo è enorme, almeno per me... A volte credi nell'amore per gli altri, quando invece è una comodità ruffiana. Vinci questa tentazione. Impara ad ammettere, a sentirti piccolo e immensamente perdente. Osa perdere.
Quando usciranno queste righe non ricorderò nemmeno di averle scritte, per quella strana o folle mania che mi appartiene di dimenticare, il mattino dopo, la discussione furente della sera prima con la persona amata...
E' l'egoismo di vivere che mi anima: ogni giorno ripartire con immenso fuoco e dimostrare con le parole che ogni lite pregressa non è altro che parte di quel fuoco, nel torto come nella ragione... E nel torto imparare a chiedere scusa, con trasporto, dolore, forza emotiva.
Senza una scusa, non esiste il perdono, e senza il perdono non esiste un giorno nuovo.
E dopo tante righe, tu che sei arrivato qui, fino in fondo, non avere paura a chiedertelo...
A volte mi chiedo se sia possibile farcela...
Spesso, in realtà.

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