Contrada di S. Stefano

I gioielli perduti di mamma Giulia
Ritratto di mavi

Mamma Giulia era nata nel 1894, sposata Rottigni nel 1920 era rimasta vedova 13 anni dopo. Dote ereditaria 3 figlie: Alpenice (1921), Adelina (1922) e Isabella (1923).
Avevano casa al civico 13 in via S. Stefano.
Condizione sociale: nullatenenti se non dignità e serietà.
Con siffatto bagaglio riuscì a portare in età adulta le ragazze invero molto belle e eleganti nella semplicità. Erano i suoi gioielli, così come mamma Cornelia Fracchi, la nobile romana ebbe a presentare i suoi figli.
Serie, compiute erano ammirate e, perché no, invidiate stante la serietà e la riservatezza che ancor di più era nell’Alpenice dai lunghi neri capelli.
L’incantesimo tragicamente si spezza, inaspettatamente, quando proprio l’Alpenice nel volgere di breve termine nell’agosto del 1942 morì.
Era ancora nel 21° anno di età.
Disperazione di mamma Giulia e delle sorelle.
Inutile raccontare di più.
La guerra che rendeva ancor più difficile la vita imperversava ed impoveriva da due anni.
Poi il crollo dell’impero creato sulle chiacchiere, lo sbandamento e lo sfaldamento dell’esercito italiano dopo l’8 settembre 1943; nuovo governo della Guardia Nazionale e relativo esercito a capo dei quali era tornato Mussolini con arruolamento dei fedelissimi, ma soprattutto giovani diciottenni inesperti di tutto e di più, reclutati facilmente stante le ristrettezze e le privazioni di quel periodo.
Fu così che a Rovato nei primi giorni del 1944 ne arrivarono tanti, forse 200.
Fu insediato un Comando della Guardia Nazionale Repubblicana nel nuovo palazzo scolastico e per tale ragione i ragazzi delle scuole elementari furono  trasferiti nelle aule dell’oratorio maschile.
Prendo spunto subito dal Diario di Mons. Zenucchini dove scrive che invero i soldati accasermati mai diedero problemi di alcunché alla nostra comunità.
E come in ogni parte del mondo i soldati cercavano le ragazze che a loro volta si accompagnavano con piacere con i militi.
Niente di strano, normalità, diciamo.
Poi i giorni a seguire il 25 aprile 1945.
Scampoli di tragiche bestialità con 9 rovatesi martirizzati da fascisti in transito in fuga.
Indi la spasmodica ricerca di un qualcuno per vecchi conti da saldare. Guai ai vinti!
Le belle giornate di primavera condensavano con il nuovo vento che soffiava: il vento della libertà.
Si costituì il Comitato di Liberazione nel quale fu introdotto un ufficiale americano in rappresentanza degli eserciti arruolati.
Si cercarono e si offersero cittadini di buona levatura di comportamento e di preparazione.
Ma non tutti dimostrarono serenità in determinate decisioni.
Da capire, non era poi tanto facile in quei giorni tormentuosi.
Ed allora salirono in cattedra giacobini a reclamar vendetta.
Innanzitutto, pensate un po’, tutte quelle ragazze che si erano permesse di compiacersi ai repubblichini di stanza a Rovato.
Dovevano essere punite, eccome!
L’accusa: spionaggio; parola grossa, significato pesantissimo, ma tant’è.
Col tempo a seguire mai più nessuno ha saputo dire per chi avrebbero spiato né per quale motivo.
Contrasti forti in seno al comitato; i più non erano d’accordo a cominciare dal Prevosto e dall’Ufficiale Americano.
Tutto invano, tempo sprecato.
La sentenza tra le più “crudeli” per una ragazza: privarla dei capelli.
Oddio, non cercavano lo scalpo come usavano gli apache i sioux indiani d’America, no, no.
Semplicemente tosarle, raparle a zero; e poi camminassero per le vie di Rovato tra scherno e ludibrio delle genti. 
Già, come si canta nel coro del Nabucco ricordando tragedie degli ebrei sottoposti agli egizi: ludibrio.
Io che scrivo mi permetto di dissentire (con molto imbarazzo) quanto scritto da Mons. Zenucchini sul numero delle donne “imputate”, prese e condotte al cospetto dei “Giudici del Tribunalino”; non un centinaio, ma se ben ricordo una quindicina.
Finì che la tosatura la subirono in poche: sei o sette. In quegli anni erano già edite e conosciute nei fumetti di Walt Disney le simpatiche corbellerie dell’anatroccolo Paperino e del un po’ sciocco, assai bulletto e molto ganzo cugino Gastone. Finì che con il passare degli anni quella improvvisata Corte di Giustizia nell’Humor rovatese la si ricordò come il Tribunale dei Ganzi Gastoni. A questo punto siccome sono per poco uscito dalla finestra rientro dalla porta raccontando di mamma Giulia e delle sue figlie Adelina e Isabella pure loro imputate dai Ganzi Gastoni di essere spie dei fascisti (!)
Quella mattina diretto a casa, che vedo?, alla mia destra su l’area erbosa e scoscesa conosciuta come “Gremù” adocchio il buon Cico steso in posizione scomodissima puntare un fucile da guerra mirando verso il portoncino d’entrata del più ampio portone del civico 13.
Stupefatto quanto curioso chiedo: “Cico, cuse ghè?” E lui: “Ssss, sito” mi impone silenzio mettendo un indice davanti al naso.
Contemporaneamente dal portone escono le due sorelle di cui scriviamo, abbracciate e piangenti scortate da Ceco pure lui armato di fucile mod. 91.
Sopra di loro mamma Giulia che disperata urlava reclamando sapere perchè gli portavano via in tal modo le figlie. A questo punto anche Cico che prima stava allertato in posizione di sparo, si alza, scende da quei 10 metri si affianca e con Ceco forma un quartetto.
La scena quasi da strazio per niente attenuata dal ridicolo dei due “gendarmi” con fazzoletto rosso al collo, fucili in spalla, attenti perché le prigioniere non fuggissero.
Entrambi non ritenuti idonei al servizio militare per difetti fisici, soprattutto Cico eccezionalmente strabico fin a leggera deformazione del viso, ora addetti e incaricati a scortare spie di regime, armati di schioppi lunghi come spingarde assegnati a loro così bassi di statura!
Lentamente tra sospiri e pianti e brevi pause lungo la via Visrnardo – ora via Verdi – i quattro erano arrivati al palazzo scolastico, prima provvisoria sede della Guardia Nazionale e da pochi giorni occupata dai Patrioti.
Ecco, proprio là sopra dove l’entrata stava, nel mezzo di tanta movimentazione, il conosciuto buon Andrea, mediatore di professione, pacifico per natura, benvoluto dai rovatesi.
Anche lui a respirare e vivere l’aria nuova e eventi storici.
E contraria – mentre al suo essere portava cinturone e fondina con pistola, fazzoletto rosso al collo e l’immancabile cappello.
Poi d’improvviso scatta, vede salire la scalinata la Isabella e la Lina scortate dagli attenti armigeri, sono le sue nipoti, figlie delle sorella Giulia già tanto provata da sventure.
Con gli occhi fuori dalle orbite si para davanti al quartetto e furibondo intima agli sbalorditi Cico e Ceco di lasciare libere le nipoti, sennò… e perché meglio capissero poggiò la mano sulla fondina della pistola.
Fu così che malamente finì l’operazione patriottica di Cico e Ceco perché le 2 ragazze velocemente filarono a casa per la gioia loro e di mamma Giulia. Che però a poco sarebbe stata un’altra volta perseguitata da crudele destino.
Così quando l’agosto del 1947 anche Isabella lasciò sola mamma e sorella. Aveva 25 anni.
Sempre dal primo piano e dalla stessa finestra mamma Giulia disse addio a un’altra figlia, la più gioiosa, sprizzante vitalità. Il serbatoio delle lacrime era ormai asciutto; non aveva più le ciglie; la sua vocina era quasi metallica, quasi a scatti.
Intanto nel periodo di tempo, a chi aveva subito la tosatura i capelli erano rigenerati e all’incirca 3 anni dopo la bella Iride che l’aveva subita, in una calda giornata d’estate, là nella vuota assolata centralissima piazza Cavour, incrocia il Beppe – Robespierre già membro del Tribunale dei Ganzi Gastoni.  Lo ferma e a lui chiede contezza, spiegazioni sulla condanna da lei patita.
E ancor prima che risponda gli molla due sberloni che nell’eco dei muri della piazza sembrò ripetere: patacich, pataciach. 
Così benevolmente finì, i conti furono saldati. Senza altri strascichi né querelle. Nel modo migliore.
Se ben ricordo mai nessuno dei Ganzi Gastoni fu eletto negli anni seguenti nel consesso civico; tanto meno fu chiamato a responsabilità cittadine.
Cico e Ceco, davvero “sfortunati”, non ebbero menzioni patriottiche malgrado loro presenti per il compimento di quell’atto, seppur non portato a termine non per loro colpa.
Mamma Giulia visse tranquilla accanto all’ultima figlia rimasta, Lina.
Frequentavo assiduamente quella famiglia, tante volte ero da loro passando su quella loggia di legno con tanti buchi.
Quanto affetto ho avuto da quella mamma diventata tanto piccola sotto i pesi di tragedie familiari!
Dalla sua finestra la “Cisina de San Stefen” era quasi frontespizia, a meno di un tiro di schioppo.
“Non credo più a niente” mi diceva spesso, “né per l’adesso né per il dopo”.
La Lina, l’ultima rimasta sempre sorridente  e quando rientrava dal lavoro coccolava la “la sua mammina”.
E quando mamma Giulia accennava a rimembranze (rarissime volte) amorevolmente la sgridava ricordandole che l’oggi è il presente.
Ma anche quel presente divenne tristissimo prossimo futuro.
Il 7 luglio 1957 anche l’Adelina se ne andò per quel viaggio senza ritorno su questa terra. Aveva 35 anni.
Destino più avverso non poteva essere per la rimasta Giulia.
Sempre dalla stessa finestra con ante semichiuse ancora un addio, alla sua Lina coccolona.
Certamente non pianse lacrime, quelle erano già prosciugate da tanti anni.
Dubito quanto mi diceva: non credo più a nulla.
Dentro di sé avrà pur pensato e sperato di rivederle in un mondo privo di bulletti Ganzi Gastoni.
Se anche gli indiani d’America si rivedono e pronosticano altri mondi con tante verdi praterie ricche di bisonti, perché non sperare di reincontrare l’Alpenice, la Isabella, la Lina, i suoi gioielli, così come millenni fa la nobile romana Cornelia Gracchi definì i suoi figli?
Mamma Giulia non scese mai più le scale di casa se non quando chiusa nella bara.
Raggiunse i suoi cari che l’avevano preceduta il 7 novembre 1974, aveva 80 anni.
Vorrei tanto sentirla dire: Tarcisio mi sono sbagliata, ad incontrarmi i miei gioielli che pensavo perduti per sempre.
Ognuna delle figlie mi ha adornato con collana di fiori. Solo in quei momenti ho ricominciato a piangere, ma di gioia!
 
Febbraio 2017 

Vota l'articolo: 
Non ci sono voti