Ciao Paolì di Bele

E così l'invisibile «Signora della falce» che a ognuno di noi sta accanto ha ghermito la tua vita dopo mesi di sofferenza.
Mi duole molto perché insieme abbiamo goduto bei periodi di fanciullezza e stima nel prosieguo, seppur in percorsi diversi.
Mi dispiace ancor più di non aver avuto il tempo necessario per scrivere e pubblicare quel fatto delinquenziale che aveva sconvolto la tua famiglia nel lontano settembre 1945 ad opera di banditi disumani: avevano approfittato della prigionia di tuo fratello Primo – classe 1923 – internato in Germania, inscenando falsità e concludere con una rapina; raddoppiando in tal modo preoccupazioni e dolore di Bubà Piero – classe 1896 – e mamma Emma Vezzoli – classe 1901 – che da due anni non avevano alcuna notizia dell'alpino.
Tu, quindicenne, stavi nel capanno distante 300 metri a guardia del vigneto e del granturco.
Sì, perché anche allora si rubava.
Ciao Paolo Lancini, quanti innocenti ricordi! La tua cascina ordinata e pulita sita sottomonte, zona nord, in via Case Sparse.
Quasi tutte le sere negli anni prima del 1940 mi vedevi a casa tua dove mi fornivo di latte che Bubà Piero Bela aveva appena aveva appena munto e mamma Emma travasato nella bottiglie che tenevo. Per me andata e ritorno erano tre chilometri di sentiero.
Coetanei, era facile parlare e capirci. Tu sempre pacato, tranquillo, riflessivo; erano doti in ten innate. Io più scavezzacollo, irrequieto: dote o difetto?.
E poi le scuole elementari con la nostra Dolores Giavera a diriger l'aula con quella bacchetta in mano continuamente, così tanto che oggi Riccardo Muti – il celebre direttore d'orchestra – a confronto ci farebbe cattiva figura.
Con la differenza che la prima dolorosamente finiva sempre sulle dita delle nostre mani. Arrivavi dalla campagna e come quasi tutti i figli della terra calzavi gli zoccoli, i «trocoi», e col freddo la mantellina di panno. Andata e ritorno a piedi: 4 chilometri tutti i giorni, qualunque fossero le condizioni meteo. Già di quei tempi la frase «contadino ,cervello fino» , ma in quel periodo storico non aveva alcun valore, reagione per cui la fila degli ultimi banchi era riservata a noi.
Eravamo i beneficiari? Il tuo proprio a ridosso del muro con compagno di banco Angelo Mangano, io in quello a voi innanzi.
E mi sovvengono... quell'invitante meraviglioso profumo di pane casereccio che voi due portavate da casa per il fugace pasto di mezzo mattino, la mia fame, l'acquolina in bocca ancor più inasprita da quello stuzzicante perdurare profumo che arrivava alle mie spalle sino a farmi arrabbiare.
Poi un po' per la fame un po' per la gola, mi voltavo verso di te e Angelo, quasi a supplicare e chiedevo: «Scèc, ma n dif en pito».
E voi subito pronti ad accontentarmi e rispondermi: «To, ciàpa». Bambini dal grande cuore, così proprio come li raccontava De Amicis. Però, Paulì, a onore del vero la tua pagnotta era ancora meglio perché quella dem Mangano sapeva un po' di acido fenico, chissà perché. Angelo so che ci leggi, non averne a male ti prego).
E poi la guerra. Dodicenne, sulle tue guance adombrava la prima barba a significare la maturità, già in essere in te anche di parola e comportamento.
Io risentito senza voler dimostrarlo che invidiavo perché a quell'età, sioccamente si ha tanta fretta di diventare adulti.
E ricordo verso la fine del 1943 quanto tuo fratello Primo – Vanni per tutti – da militare alpino fu catturato e deportato in Germania. Tuo padre, Piero, ne risentì profondamente. Indi dall'inizio del 1944 fino alla fine delle ostilità quasi ogni sera, quando il buio era totale, calzando zoccoli e mantellina grigio-verde indossata nella guerra 15-18, bussava alla finestra di casa mia; voleva ascoltare dalla radio clandestinamente notizie da Radio Londra e da Radio Mosca. Teneva l'impossibile assurda speranza di avere notizie dal figlio in quel periodo disperso.
Poi, nel settembre del 1945, Nani tornò, in qualche maniera era arrivato a casa. Ma prima della gioia subisce la vigliacca delinquenza dei banditi che forse in altra occasione narrerò.
Così come ti avevo promesso, Paolo.
Poi nel prosieguo della vita le nostre strade si sono divise, come doveva essere. Tu che alle elementari stavi relegato nell'ultimo banco perché contadino, nella carriera di vita hai occupato lavoro di pregio, dimostrando di avere cervello fino.
E poi, e poi, e poi vicissitudini di vita, frenesia dei tempi, tutto cambia, tutto scorre velocemente. Troppo, nevvero Paolì?
Fino ad arrivare allo scorso mese di aprile. Il buon e valido tuo parroco don Gianni, onorato di ritenerlo amico da tanti decenni, mi informa che nelle tue mani tieni la valigia; il tuo destino è di partire senza la possibilità di tornare tra noi.
Don Gianni e chi rappresenta la scienza medica hanno hanno dovuto vedere la funesta Signora della Falce accanto a te.
Gli basterà solo fare «zac». Ho deciso così, nel sapere questo, di farti visita.
Mi hai accolto con gioia repressa ma ho capito: con il tuo sorriso di sempre, con le poche parole del tuo stile. Ma tanta stanchezza, solo lo sguardo diceva della lucidità della mente.
E abbiamo un poco parlato, anche del fattaccio del settembre 1945. Sono partito dalla tua casa con tristezza e pensieri, certo. Quando eravamo stati sottoposti alla visita militare nel 1949 ricordi? Orgogliosamente ci consideravamo «1930, classe di ferro».
La Signora della Falce su di te ha reciso, io mi ritengo in lista d'attesa. Ma è così breve la vita terrena?
Eppure siamo campati tanto... Ciao Paoì di Bele. Non so come, ma sono certo che in qualche maniera leggerai questo scritto, magari durante il viaggio che non mi è dato di sapere se lungo o breve, nemmeno la tua destinazione.
Son altrettanto sicuro però che quando chi ti ha apprezzato e amato, ricordandoti, se vorrà rivedere il tuo volto dovrà rivolgere lo sguardo in alto laddove è chi nella vita è stato paladino di rettitudine.