La chiesa di Santo Stefano...

La sua magia e qualche errore
Ritratto di mavi

Con riferimento all'articolo diTarcisio Mombelli, pubblicato sul Giornale di Rovato del Gennaio scorso,  nel quale lui afferma di provare un “magù”, pensando alla “cisìna de Santstefèn” come era prima del 1948, devo dire che sono pienamente d'accordo con Lui.
In quel tempo abitavo anch'io nella contrada di Santo Stefano, avevo qualche anno meno di Tarcisio ma eravamo molto amici e ricordo tutto benissimo. Con questo mio scritto vorrei fare alcune osservazioni sullo sconsiderato intervento urbanistico che stravolse l'aspetto della chiesa e dell'ambiente circostante.             Premetto di credere che il bravo e buon Monsignor Zenucchini non abbia dato tanto peso alla parte urbanistica, essendo probabilmente tutta la Sua attenzione rivolta all’aspetto religioso e spirituale della incoronazione della Vergine e alle conseguenti celebrazioni da programmare. La chiesa di Santo Stefano e l’ambiente esterno circostante, come erano prima della ristrutturazione del 1948, sono uno dei ricordi più belli della mia gioventù. Mentre l’interno della chiesa e il campanile della stessa sono rimasti, per fortuna, ancora praticamente uguali a prima, tutto il resto è cambiato. La facciata esterna era di una rustica ma armoniosa semplicità e aveva, sul lato sinistro, un bel portichetto, costruito, come in quasi tutte le pievi medioevali, per offrire ricovero ai viandanti. Sulle pareti del portichetto c’erano tracce di antichi dipinti che rendevano il luogo molto suggestivo. Semplice ma ben proporzionata era anche la porta centrale di ingresso al Santuario.
La montagnola rocciosa, sulla cui sommità poggia la chiesa, era completamente allo stato naturale e  appariva molto più evidente e maestosa. La scalinata di accesso anteriore era molto più stretta e  perfettamente inserita nel pendio.
Le rocce di conglomerato che formavano la montagnola, specialmente sul fianco che guarda verso Erbusco, erano delle vere e proprie pareti verticali in miniatura, intercalate da piccoli pianori erbosi.
La vegetazione, molto varia, offriva un piccolo campionario dei fiori tipici del Monte Orfano. Ricordo che non mancavano perfino le “colombine” (piccole orchidee selvatiche),  la “erba china” (genzianella minore) e altri fiori e erbe aromatiche usate per fare tisane e liquori digestivi. Sotto il suddetto fianco roccioso, ora quasi completamente sommerso dal terrapieno del parcheggio, si stendeva un lungo pendio erboso che iniziava ai margini della strada che porta sul monte e scendeva dolcemente fino al cancello della cascina dei “Sulfer” (unica costruzione allora esistente). La montagnola  e il sottostante pendio erboso erano un parco di giochi ideale per i ragazzi della contrada. Nella bella stagione le piccole balze rocciose si trasformavano in salite da scalare, seguendo vari percorsi che ognuno conosceva a menadito.
D’inverno la neve, che puntualmente cadeva verso Natale e restava fino a metà  Febbraio, trasformava il pendio erboso in una affollatissima pista per slittini, che ogni ragazzo si costruiva da sé con alcune assicelle adeguatamente assemblate. Nelle belle sere del mese di Maggio, finito il frequentatissimo Rosario che si recitava nella chiesa, molte persone si intrattenevano a conversare sedute sull’erba o, meglio, sul “gremù” (così veniva chiamato il tappeto erboso del pendio perché formato in prevalenza da erba gramigna molto resistente al calpestio). Passiamo ora alle mie osservazioni. Restaurare adeguatamente ogni opera quando sia opportuno e necessario è opera buona e giusta. Ma ristrutturare un antico e storico edificio stravolgendone l’aspetto architettonico originale, anche se il nuovo può sembrare più bello del precedente, è sempre cosa sbagliata e inopportuna. E sbagliatissimo è stato sotterrare per una decina di metri in altezza, con un mostruoso terrapieno, la bella montagnola rocciosa; e di coprirne la parte rimanente con un  inadeguato muro di sassi per recuperare pochi e inutili metri di superficie.
L’ambiente esterno, distrutto dal terrapieno del parcheggio, poteva benissimo essere salvaguardato.
Infatti al di là del pendio erboso, venendo in su dopo la cascina dei “Sulfer”, c’era tutta area agricola libera (all’ora non c’erano costruzioni) fiancheggiata dalla stradina che porta sotto monte. Prenderne una striscia larga una decina di metri a fianco della stradina per farne un parcheggio non penso fosse stato impossibile.
Tra l’altro la stradina era un po’ più alta del terreno e con una siepe che avrebbe praticamente occultato il parcheggio, raggiungibile, questo, risalendo da via Bersaglio invece che da via Santo Stefano.
Con una operazione del genere si sarebbe salvaguardato tutto l’ambiente naturale che ho in precedenza descritto. Inoltre si sarebbe sprecato molto meno denaro.

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