Il saluto a Enzo Pedrini

Si è spento il nostro storico collaboratore da Rovato
Ritratto di Massimiliano Magli

Se n'è andato in silenzio, al punto che 'poteva almeno chiamarmi', mi è venuto da pensare, talmente mi è arrivata tardiva e spiazzante la notizia della sua scomparsa. Come se la sua presenza fosse scontata anche ora, tanto era preziosa, tanto era impegnato il suo animo per le cose serie e belle della vita.
Enzo Pedrini, storico collaboratore della nostra redazione da Rovato, è volato via dal capoluogo franciacortino, lasciando il vuoto che lascia chiunque si sia occupato di comunità in modo profondo.
Alpino, per 15 anni alla guida dell'Ana rovatese, artista di pregio, socialista convinto, aveva 87 anni.
L'ho sentito prima che il Covid facesse il disastro che ha fatto. Avevo preso una promessa che non sono riuscito a mantenere. Lui aveva appena proposto di avviare una serie di scritti per il Giornale di Rovato, «ma io la aspetto, anche tra un paio di mesi non c'è fretta, per vedere i miei quadri. Voglio sapere cosa ne pensa».
Non ci sono riuscito, anche se i suoi quadri li ricordo bene perimetrare il salotto in cui mi accolse in via Petrarca una decina di anni fa, quando la nostra sede era ancora a Rovato, prima di trasferirsi a Roccafranca.
Parlammo della Rovato produttiva, quella delle Telemeccanica, della grandi fabbriche che assorbivano numeri di operai degni di un quartiere milanese, quella dei grandi ideali, quella che aveva un foro boario spaventosamente attrattivo.

 

Un mercato del bestiame, quello di Rovato, che per chi ha poco più di 40 anni come me, è riuscito ancora a vedere e ad apprezzare nella sua magnificenza, mano nella mano con mio padre: sembrava non finire mai, come una fiera agricola in pieno stile. Un grande mercato settimanale dalle dimensioni di una campionaria.
Pedrini era un uomo appassionato di vita. Amava la montagna, al punto che anche un paio d'anni fa era riuscito a salire in Adamello. Era in forma, «ma – mi ricordò – dietro a tanta magrezza c'è anche metà stomaco che se n'è andato». Ma non ha mai onorato con troppa attenzione la malattia, come fosse parte della natura stessa che lui amava. Per questo ha dipinto, scritto, amato i suoi nipoti, i figli Lidia e Marco e la moglie Adriana con grande pienezza e fino all'ultimo.
Il suo ultimo saluto è avvenuto in Santa Maria Assunta mercoledì 15 luglio. Il nostro saluto proseguirà qui con uno dei suoi suggestivi scritti, che raccontavano una insolita Rovato, la Rovato sciistica. 

ARTICOLO PUBBLICATO SUL GIORNALE DI ROVATO (FEBBRAIO 2019) IN PAGINA ALLEGHIAMO ANCHE L'INTERA EDIZIONE DEL GIORNALE DI ROVATO DI FEBBRAIO 2019 

La Rovato sciistica
Brullo il Montorfano? Si sciava al dossello del Cont Cuchet

di Enzo Pedrini

 Facendo seguito al mio articolo pubblicato su questo giornale dello scorso mese di Gennaio, ritengo interessante proseguire, con questo secondo scritto, ricordando i luoghi dove andavamo a sciare a Rovato. Quando la neve esposta al sole sulla pista del Monte Orfano incominciava a sciogliersi, avevamo la possibilità di sciare ancora per alcuni giorni al “dusel del Cont Cuchet”. Era così chiamata in dialetto la collinetta, situata a Nord del parcheggio del mercato, sulla quale sorge il palazzo del Conte Terzi. Questo palazzo era inizialmente di proprietà del Conte Cocchetti (Cuchet) e successivamente passò, per asse ereditario, ai Martinengo Cesaresco e poi ai Conti Terzi. La suddetta collinetta, chiamata Dossello, aveva il versante Nord coltivato a prato stabile con un pendio, sempre in ombra, che consentiva di sciare per un centinaio di metri. Questo sito si trovava all’interno di una vasta tenuta agricola completamente chiusa da una muraglia che ne cingeva tutto il perimetro. 
Per accedervi bisognava chiedere il permesso al proprietario, Conte Ottobono Terzi. La richiesta veniva solitamente fatta da mio zio Vittorino con l’amico Franchino Lecco, la cui famiglia era in rapporti di amicizia con la famiglia Terzi. Apro una parentesi ricordando che Ottobono Terzi ottenne notorietà letteraria col suo libro Warwarowka alzo zero, pubblicato negli anni sessanta, nel quale l’autore descrive con mirabile chiarezza la personale odissea vissuta, da ufficiale del reggimento di artiglieria a cavallo “Milano” con la divisione alpina Tridentina, nella tragica ritirata dal fronte del Don nel gennaio 1943.
Ottenuto il permesso di accesso al Dossello, si sciava in discesa per un centinaio di metri, come già precisato, e poi, facendo un’ampia conversione, si poteva risalire in alto lungo un percorso meno inclinato, pattinando con gli sci ai piedi e spingendo con le racchette. In tal modo facevamo contemporaneamente sia discesa libera che sci di fondo.
 Ricordo che su questa pista si destreggiavano con incredibile abilità anche i ragazzi della famiglia Corsini che coltivava quei terreni. Detti ragazzi usavano gli “sci embreac”, di loro fabbricazione, ricavati da doghe di vecchie botti con applicati cinghioli di cuoio per trattenere gli scarponcelli. Ricordo anche che detti ragazzi, quando lasciavamo il Dossello passando dal loro cascinale a volte ci offrivano, per dissetarci, una tazza di “isena”. La “isena” era un sottoprodotto della vendemmia. Si otteneva versando acqua nel tino di raccolta delle bucce dell’uva dopo la separazione dal mosto. Ne usciva un liquido di colore rosato, con gradazione alcoolica quasi nulla, ma molto dissetante. La “isena” doveva essere consumata alla svelta perché col primo caldo primaverile si inacidiva fortemente diventando imbevibile. 
                                                       


 

 

 

 

 

 

Vota l'articolo: 
Average: 5 (3 votes)