Rovato si racconta

La storia dei "licinsì" e il patriota Silvio Bonomelli
Ritratto di Redazione

Quando ho ricevuto una lettera di Enzo Pedrini, ho pensato subito che si trattava di una persona particolare, come è particolare chi sa scrivere in buono stile e con moderazione oggi e sempre nel nostro paese.
Buttai lì, pensando avesse qualche idea, la possibilità di raccontare qualcosa su Rovato, qualcosa con costanza con quello stesso stile che poi è quello di un uomo che vuole bene alla nostra città.
Ne è uscito la rivelazione di un lavoro già svolto per l’Auser, con l’allora presidente e ancora oggi collaboratrice attiva, Mariolina Cadeddu.
Ne è uscita una serie di testimonianze destinate ad avere ramificazione continua, profilerazione, almeno spero, costante, come una vite antica che ancora dà e poi si espunge in una barbatella per ridare ancora... storie antiche rinnovate nella forza della comunicazione.

Massimiliano Magli

Alla scoperta dei “Licinsì” con nonno Battista e Massimone

di Enzo Pedrini

Negli anni dal 1945 al 1953 ho avuto modo di conoscere e frequentare diversi “licinsì” della nostra zona con mio nonno materno Battista Bonomelli. La parola dialettale “licinsì” significa “licenza limitata”. Questa licenza veniva concessa a famiglie di contadini vignaioli che ne facevano richiesta per poter smaltire fino a esaurimento il vino ricavato dal proprio vigneto, servendolo ai clienti direttamente sul posto. Il “licinsì” funzionava normalmente da novembre ad aprile. Da maggio a ottobre veniva praticamente sospeso, sia per l’esaurimento del vino prodotto che per il maggior impegno di tutta la famiglia nei campi. I “licinsì” si trovavano quasi sempre in cascine sparse per la campagna ed erano occasione e meta di lunghe e interessanti passeggiate. Alcune famiglie, le più attrezzate, disponevano di un locale apposito. Era una grande stanza che si apriva sotto il porticato accanto alla cantina. Con un camino sempre acceso e un lungo tavolo, al centro, con una ventina di sedie impagliate.
Ma nella maggior parte dei casi la mescita del vino si effettuava
direttamente nella grande cucina di famiglia e, nelle tiepide giornate primaverili, sotto il porticato.
Assieme al vino, al gestore del “licinsì” era consentito di dare ai clienti anche uova, salame e verdure da insalata, sempre di propria produzione.
E i clienti potevano portarsi qualche altro alimento. Apprezzatissimi erano i “sironcc” (ritagli di forme di formaggio) arrostiti sulla graticola e la “tara” (formaggio andato oltre la normale stagionatura, molto piccante e spesso vivacizzato da piccoli noti animaletti).
Le zone di campagna con “licinsì” erano ovviamente quelle più vocate alla coltivazione dell’uva.
Sul Monte Orfano ricordo che c’erano: “Piero de la legna” ubicato nella casa bianca che guarda verso Coccaglio ai margini del piazzale del convento dell’Annunziata (nel Convento, in fianco alla chiesa, c’era anche “Rita Gerri”, ma quella era una vera e propria osteria aperta tutto l’anno). “I Bore” nella cascina della famiglia Borra (gente di statura gigantesca) ai margini della stradina che partendo dal piazzale del convento si congiunge con la strada che sale da Coccaglio. Dai “Bore” oltre al vino era molto apprezzata la gentilezza e la grande umanità della vecchia signora Borra e delle sue due anziane figlie, che si erano sacrificate dedicandosi alla gestione del loro podere per consentire ai due figli maschi di darsi al sacerdozio (don Giuseppe è stato curato dell’Oratorio di Rovato e prevosto di Gardone V.T. ) “El Genuisì”, sul crinale del monte tra la croce di Coccaglio e quella di Erbusco. Alla gestione di questo “licinsì” (trasformato attualmente in rinomato ristorante) si alternarono diverse famiglie: Tone Tener, Madòna, Turla, Gastone, Barsà e la “milanesa”. Per raggiungere il “Genuisì” si doveva fare una lunga camminata, particolarmente suggestiva in ogni stagione e impegnativa d’inverno, quando c’era la neve. Durante il percorso mio nonno Battista, che era un informatissimo autodidatta, si soffermava spesso a ragguagliarmi sulla natura di tante cose in cui ci si imbatteva. Erano vere e proprie lezioni di geologia (esaminando le varie pietre e conglomerati, le terre rosse con ossido di ferro e quelle gialle con ossido di alluminio, ecc.), di botanica (esaminando varie piante e arbusti, erbe e fiori), di fauna locale (conigli selvatici, ghiri con i loro nidi penduli, uccelli, farfalle, insetti, ecc.).
Ricordo il grande stupore che mi colpì la volta che il nonno, indicandomi un albero con una forte inflorescenza biancastra e profumata che il vento staccava e spargeva tutt’intorno, mi disse che quello era un orniello, detto anche “albero della manna”, dai cui fiori si ricava la mannite, delicatissimo alimento di biblica memoria. Nella zona pedemontana ricordo il “licinsì” dei Lancini lungo la stradina che dalla chiesa di Santo Stefano conduce verso Coccaglio e termina presso la casa dei Valtellini, che gestivano la rinomatissima osteria/trattoria “Passarella” ora purtroppo chiusa. Oltre questa località, da Coccaglio andando verso Cologne c’erano diversi “licinsì”. Ricordo quello di “Maria Magra”, del “Bagh“”, dei “dù piantù” e di “Piero Festa”, famoso, questo, oltre che per il vino e l’apprezzatissimo salame, anche per le 10 fi glie, belle e prosperose, che il Piero aveva fatto sfornare a sua moglie prima di riuscire ad avere con l’undicesimo parto un figlio maschio. C’erano poi diversi “licinsì” nella zona a Nord di Rovato verso le colline di Villa Pedergnano e di Calino. Famosi erano il “Grignolino”, su un rialzo a destra della provinciale per Iseo, dietro l’attuale cantina dell’Agricola Boschi; e la “Capocia”, dove attualmente c’é la cantina Principe Banfi.
Dei licinsì di Villa Pedergnano non ricordo i nomi perché ci sono stato poche volte. Ma sì che erano molto apprezzati, oltre che per il vino, anche per i “raponzoli” sempre disponibili nei mesi di gennaio e febbraio.
Le passeggiate con mio nonno ai licinsì si effettuavano il sabato pomeriggio, quando io ero libero da impegni scolastici. E a volte anche il lunedì pomeriggio, dopo la frenetica mattinata di mercato, a quei tempi molto più intensa per l’importante e frequentatissimo mercato del bestiame (mio nonno Batista aveva un pastificio con negozio per vendita all’ingrosso e al minuto aperto direttamente sulla piazza del Foro Boario). Battista Bonomelli, classe 1881, aveva frequentato le scuole solo fi no alla terza elementare, ma era molto intelligente e si era fatto una notevole cultura da autodidatta. Dall’età di 10 anni e fino ai 18 andava periodicamente a Zurigo, in Svizzera, come aiutante di un suo zio che faceva il capomastro. Ebbe così modo di apprendere correttamente la lingua tedesca e di frequentare ambienti allora molto più evoluti socialmente rispetto al nostro. Si avvicinò agli ideali del socialismo umanitario e solidale. Fu uno dei fondatori nel 1907 della prima sezione del PSI a Rovato.
Contrastò democraticamente l’avvento del fascismo e ne sub“ le prime angherie (manganellate squadriste, olio di ricino e poi anni di domicilio coatto).  Mantenne la tessera del PSI clandestino fino al 25 aprile 1945. Dopodiché non si volle più interessare di politica attiva, anche a causa di ingiustizie fatte da “antifascisti dell’ultima ora” verso alcuni onesti dipendenti comunali incolpati di aver indossato la camicia nera (obbligatoria) durante certe manifestazioni e festività nazionali.
Quasi sempre con mio nonno, nelle passeggiate ai licinsì c’era anche un suo amico che voglio qui ricordare. Era Massimo Mussinelli, detto Massimone per la sua alta statura. Persona molto interessante umanamente e di grandissima cultura, acquisita in circostanze del tutto particolari.
Massimo, figlio di una benestante famiglia rovatese, giovane studente liceale, chiamato alle armi nella Grande Guerra 1915-1918, durante un combattimento cadde prigioniero degli austriaci. Fu internato in un campo di concentramento dal quale riuscì a evadere. Era però in territorio nemico e gli fu impossibile raggiungere le linee italiane. Per diversi mesi si dette alla macchia, continuamente braccato dai gendarmi austriaci. Per sopravvivere dovette arrangiarsi in tutti i modi e, in alcuni casi , anche uccidere per non essere ucciso. Finita la guerra giunse a casa molto scosso e trasformato. Il giovane studente, allegro e idealista, non esisteva più. Durante i festeggiamenti per la vittoria, in un locale pubblico del paese ebbe un alterco con un coetaneo per via di una ragazza che entrambi volevano invitare a ballare. Il banale motivo sfociò in una rissa. Massimo si era abituato a portare una pistola. Istintivamente la estrasse e sparò uccidendo senza rendersi conto della gravità del suo atto.
Riuscì a fuggire e ad allontanarsi da Rovato. Sempre istintivamente andò verso quei luoghi dove era stato alla macchia durante la guerra e che ben conosceva. Restò nascosto per diversi giorni. Ma fu poi catturato.
Nel frattempo in quella zona, durante un tentativo di rapina, era stata uccisa una persona.
E anche di questo omicidio fu incolpato Massimo. Lui non c’entrava, ma non poté dimostrare la propria innocenza. Fu condannato a 30 anni di reclusione. Era il 1919 e aveva poco più di vent’anni. E di anni ne trascorse oltre 20 in vari penitenziari sulle isole del Tirreno. Quasi sempre con l’incarico di bibliotecario. Ottenne la scarcerazione anticipata per buona condotta all’inizio degli anni quaranta e rientrò in famiglia. Abitava in piazza Garibaldi, poco distante dalla casa di mio nonno. Dopo i primi rapporti formali di vicinato, i due incominciarono a parlarsi e a scoprire di avere opinioni concordanti e comuni interessi culturali, con particolare riguardo alla letteratura dell’ottocento russo e francese. Si incontravano quasi tutti i giorni e divennero molto amici. Il loro rapporto durò fino alla tragica morte prematura di Massimo, nel 1963, per infezione tetanica causata da una banale piccola escoriazione sotto il tallone di un piede. Ricordo che mio nonno soffrì molto per la scomparsa dell’amico. Massimone, che aveva già una buona istruzione scolastica, una notevole predisposizione alla lettura e una grandissima memoria, negli oltre venti anni trascorsi in carcere come bibliotecario si fece una cultura eccezionale, che io ebbi modo di apprezzare (e di trarne vantaggio) durante le lunghe passeggiate e soste nei vari “licinsì del nostro territorio.

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