Tra Palazzolo e la Brexit

Ritratto di mavi

La mattina di venerdì 24 giugno 2016 molti di noi stranieri, tra cui tantissimi italiani e diversi palazzolesi come me che hanno risieduto o risiedono nel Regno Unito si sono svegliati con un amaro in bocca che avremmo voluto imputare ad una bella bevuta al pub sotto casa, ma che in realtà era solo il presagio del dissapore in arrivo durante la giornata.
Quella mattina abbiamo definitivamente capito che i britannici non ci vogliono più. In fondo anche nell’internazionalissima Londra, altrimenti conosciuta come ‘casa mia’ negli ultimi dodici anni, l’inglese autoctono un filo di disprezzo per il ‘bloody foreigner’ (dannato straniero) ogni tanto lo lasciava trasparire, perdendo un centimetro di self-control e fingendo fosse indirizzato più che altro ai clandestini, alle masse di indiani, pakistani, cinesi, musulmani, ma non agli europei ed agli americani. 
Non entro neppure nel merito politico-economico, non è il mio mestiere, posso però provare a descrivere come ci si sente quando la tanto esaltata e sopravvalutata partecipazione democratica ti presenta il foglio di via che non hai mai richiesto. Beh, in parole povere ci si sente di m…..!
E non sono solo io, ipersensibile a questo tema dell’identità, la mia quella d’origine ormai integrata a quella che mi sono costruita in Inghilterra, bensì tutti coloro che sinceramente amano il regno di Elisabetta II e ci vivono volentieri da anni.
In questi mesi ho avuto il piacere di confrontarmi sia a caldo, nei giorni successivi a Brexit, e poi con calma con persone amiche, colleghi e perfetti sconosciuti che condividono con me soprattutto la rabbia.
Se da una parte corriamo a richiedere la doppia nazionalità, dall’altro siamo tentati di mandare a quel paese sti inglesi e gallesi, dato che la Scozia e Gibilterra hanno votato ‘remain’, loro e la loro mentalità coloniale ed isolana.
È proprio magra la consolazione dei dati statistici e della demografia di questo referendum, sapere in cuor tuo che il tuo quartiere ha votato per te e non contro di te, perché alla fine della fiera la domanda sulla scheda referendaria era molto più semplice di quanto credano i burocrati di Bruxelles: stranieri sì, stranieri no.
Sono arrabbiata, arrabbiatissima, tanto che martedì 17 gennaio ho scagliato un cuscino contro la televisione in una camera d’albergo di Manchester mentre Theresa May, primo ministro incaricato di accompagnare il Regno Unito fuori dall’Unione Europea, con una spocchia da odiosa prima della classe e un’arroganza da competizione annunciava una hard Brexit.
Il peggio dell’Englishness in un discorso alla nazione. Sai cosa ti dico, Theresa, guardati in giro nella nostra bella Londra e apri gli occhietti da furbetta che ti ritrovi: il tuo paese sta in piedi grazie a noi stranieri.
Ho ancora da vedere un inglese che si pulisce casa o l’ufficio, che ti serve il pranzo al ristorante, che insegna le lingue straniere e non solo quelle ai tuoi figli, un ospedale senza infermieri e medici da tutto il mondo, un master universitario frequentato solo dai sudditi, una via dello shopping senza russi e arabi con carte di credito illimitate, un centro finanziario puramente anglo-sassone.
Ma fai pure, manda quell’ipocrita fanfarone di Boris Johnson a negoziare con l’Europa, renditi la brutta copia della lady di ferro, fingi di avere il coltello dalla parte del manico.
Ti dirò, cara Theresa, che a parte la voglia quasi incontenibile di ridestarti dal tuo delirio di onnipotenza con uno schiaffo, noi stranieri siamo gli ultimi a doverci preoccupare.
Ce la caveremo perché se ci siamo trasferiti nel Regno Unito siamo intraprendenti per natura, negli anni per non sentirci inferiori a voi abbiamo cercato e dimostrato conoscenze più profonde delle vostre, abbiamo acquisito competenze, abbiamo affinato il nostro inglese (e a volte lo scriviamo con meno errori di spelling di voi), ci siamo messi in gioco, ci siamo relazionati e abbiamo costruito rapporti persino con voi che notoriamente non sprizzate per socialità.
Abbiamo imparato tanto da voi, grazie davvero, ora se proprio non ci volete, porteremo il nostro cervello, la nostra cultura, il nostro bagaglio di belle esperienze e pure le nostre sterline altrove e voi state pure lì a congratularvi per aver fatto la voce grossa con l’Europa. Dublino, Francoforte, Milano, Tokyo, the sky is the limit!

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