Il derby calabro, un grande arbitro rovatese… e l'incredibile disponibilità di un capotreno

Ritratto di mavi

Ecco con tale semplice foglietto inviato con espresso, la Lega Nazionale Calcio informava gli arbitri che dovevano dirigere gare di calcio nelle categorie A e B.
A noi toccò nel lontano 1966 nientepopodimeno che uno dei più caldi derby del sud: Catanzaro-Reggina. Fummo felici per la fiducia accordata e con la speranza che tutto andasse per il meglio.
La nostra terna era composta dal sottoscritto, da Antonio Pedico e dal direttore Ezio Motta.
Speciali ricordi di questa trasferta perché tanti e strani accadimenti convennero nel fatto sportivo Con il quale nulla avevano a che fare. Cercherò di essere sintetico nel racconto, ma non mi sarà facile. Con i colleghi si parte da Milano Linate il sabato mattina con il bireattore «Caravelle», Diretti a Roma Fiumicino dove, ripartiamo due ore dopo con l'aereo turboelica Fokker, destinazione Reggio Calabria, aeroporto Minniti.
La pista a quei tempi era ancora erbosa e limitata nella lunghezza e pertanto inadatta
ad aerei a reazione. Arrivati, con taxi ripartimmo immediatamente per la stazione ferroviaria del capoluogo. Da dove poi sarebbe partito il treno che c'avrebbe condotti a destinazione, Catanzaro, 170 km dopo.
Pochissime persone, forse solo noi tre, gran caldo. Valigia alla mano, ci presentiamo allo sportello per l'acquisto dei biglietti: andata e ritorno. L'addetto, al di là del vetro, ha tempo di scrutarci, cala gli occhiali sulla punta del naso e pacatamente: «Voi siete gli arbitri del grande scontro che domani incendierà la Calabria intera».
Così disse, null'altro aggiunse, manco gli auguri ci fece.
Ci guardammo in faccia e sorridemmo e ci chiedemmo se sulla fronte avessimo il MARCHIO a contraddistinguerci come un qualsiasi cornuto belzebù. Saliti poi in carrozza di prima classe ci trovammo del tutto soli, nessun altro passeggero. Bene. Collocate le valige ci siamo seduti, stanchi. Normale.
Sali, scendi, corri, sempre di fretta. Pochissimo tempo dopo la partenza del convoglio, arriva il controllo dei biglietti, li fora e sorridendo punta l'indice verso di noi: «Voi siete la terna arbitrale che domani dirigerà...». Ancora, il MARCHIO. Non ci rimane che un'altra volta sorridere, ma quello continua, vuole entrare nel merito della partita, ciò che noi vogliamo assolutamente evitare. Si allontana per una decina di minuti e ritorna con un suo collega dal berretto rosso e greche argento.
Evidente l'importanza. Quasi con inchino si presenta come il capotreno. Ha saputo di noi, vuole parlare di calcio. Sempre per ovvii motivi noi non siamo d'accordo.
Finché riesco a portarlo sul discorso dei vini. A quei tempi avevo iniziato la raccolta dei migliori della zona in cui ero designato.
Per la zona in cui ero questa volta desideravo due bottiglie di bianco indicato tra i migliori della costa ionica calabra. Mi risponde berretto rosso che mi può aiutare. Difatti, continua, arrivati a Roccella Ionica, praticamente a metà percorso, dovevo scendere dal treno e poi e poi, ecco, sarei arrivato là dove una grande piazza in fondo alla quale una enoteca e bla bla bla. Era certissimo che avrei trovato ciò che desideravo.
Lo guardo quasi commiserandolo e gli chiedo se si rende conto di quanto mi prospetta, il tempo è tiranno e se ho ben capito dalle sue parole almeno, almeno 15-20 minuti occorrono.
No, mi dico, è impossibile l'impresa. I colleghi preoccupati mi guardano torvamente: «Tarci, non commettere idiozie, pensa alle conseguenze. Gara importantissima, radio, televisione e tutto ciò che ruota intorno alla partita».
Ma il capotreno come un diavoletto insiste: «Niente paura, il capo sono io, solo io dico quando ripartire».
Decido anch'io, scendo. Ma prima raccomando ai colleghi di portare la mia valigia in albergo (già prenotato). Se andrà male li raggiungerò con un taxi, a Catanzaro.
Scendo, corro, corro. Arrivo dove indicatomi. Acquisto e mi avvio al ritorno. Corro ancora più di prima. Sento il cuore in gola. Sudo, fa caldo al sud. Son bagnato da capo a piedi.
Finchè... ecco, là in fondo vedo il treno, lungo, lungo. Lo risalgo e mi accascio, distrutto ma con le due bottiglie in mano.
Da quando sono partito sono passati 44 minuti. Sì, avete letto bene. Grazie tante Sig. capotreno. E le mie scuse per aver dubitato del suo potere, della sua disponibilità.
In quella parte d'Italia il gran cuore e il gioco del pallone ad alti livelli fa miracoli. Sissignori. Noi settentrionali non capiremo mai che lo scrupolo, a volte, è un optional. Cosa sono 44 minuti di ritardo di un treno nel contesto di tante altre cose della vita? Già.
Arrivammo a Catanzaro Marina quando calavano le prime ombre della sera. La trattoria «Da Carmelina» era tappa obbligata perché raccomandata da tutti coloro che avevano gustato quella cucina a base di pesce freschissimo.
I pescatori-fornitori arrivarono sotto la finestra posta in alto: la Carmelina calava con una corda il cesto che veniva riempito.
Proprio come abbiamo visto ancora nei film.
Ora rientro velocemente: dirò che la gara del giorno dopo andò nel migliore dei modi anche – e soprattutto – perché la vittoria fu dei reggini, squadra ospite che si impose per due reti a una.
Il gol decisivo lo infilò Giuseppe Tomasini, palazzolese che per moglie prese una rovatese come me.
Quasi concittadini, insomma. Carriera di alti vertici la sua: pochi anni dopo si laureò campione d'Italia con il Cagliari di Gigi Riva & Co.
Al termine della tenzone i due presidenti delle società vennero nel nostro spogliatoio a complimentarsi. Non era poco.
Grande anche il comportamento del pubblico, esemplare per l'assenza di scontri.
Il patron della Reggina, dott. avv. Granillo (oggi lo stadio di quella città porta il suo nome) con signorilità ci offrì la possibilità di ritornare a Reggio con la sua automobile Citroen Palace.
Per sé avrebbe provveduto diversamente. Accogliemmo l'invito.
Noi tre e l'autista con berretto, silenzioso come costume in quei luoghi, in ora crepuscolare partimmo. Ricordo bene quel mare piatto nel golfo di Squillace e le luci che si rispecchiavano: noi seduti come sultani in abitacolo-salotto. Davvero beati e soddisfatti.
Arrivati a destinazione e lasciate le valige nell'hotel Excelsior, dove poi avremmo pernottato, uscimmo immediatamente a mescolarci tra la folla straboccante, in attesa dei treni che riportavano a casa il pubblico in trasferta e gli eroi vincitori del derby: uno spettacolo.
Bello essere anonimi nel buio e vivere nel mezzo di tale esplosione di gioia sportiva.
Noi che con i giocatori eravamo stati attori. Nessuno ci poteva conoscere, sapere della nostra presenza.
Finché all'improvviso.. «flash»! Un bagliore accecante e inconfondibile di macchina fotografica. Qualcuno aveva saputo. Ma chi? E da chi? Poi ci sovvenne: il MARCHIO! Visibile anche di notte. Ancora belzebù con le corna? E sempre all'improvviso arrivano due persone che affiancano il fotografo al quale strappano dalle mani la macchina e tolgono il rullino, per poi riconsegnare la macchina al legittimo proprietario.
Nessuna parola da questi attori inespressivi negli sguardi.
I due apparsi all'improvviso non erano angeli, credetemi... non avevano le ali. Nè potevano essere spiriti perché esseri visibili. Mah?!
A quel punto uno di noi tre tagliò corto: «Ndom a dormer che l'è mèi». Già, andiamo a dormire che è meglio: accadde 49 anni or sono. Il mistero è ancora fitto...

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