Romano, eterna gioventù

Ritratto di roberto parolari

Stasera un altro appuntamento con la guida... Dove andiamo...
Il punto interrogativo lo tengo in tasca e nella mente... è tutto mio poiché fingo di conoscere ogni dettaglio del viaggio.
Una rata (ovvero un'erta in dialetto bresciano) scende verso un ristorante con una grande veranda.
Veniamo da giorni di chiacchiere, confidenze, battute...
Abbiamo visitato anche ristoranti stellati, spesso piccolissimi con ambientazioni degni di una casetta dove l'ultimo tavolo lo trovavi nel sottoscala. Altre volte abbiamo trovato castelli.
Siamo in viaggio stampa in Francia, a Nevers, per l'Hexagone terra persino più cardiaca di Parigi, perché più popolana e meno industrializzata.
Serata con la bourguignonne di lumache... le vedi ancora friggere nella spirale di fori dove vengono rannicchiate dagli chef...
Io ne mangio un paio giusto per il trasporto che mi dà «Obelix» alias Romano Gandossi. I suoi baffi, la sua stazza, la sua bonarietà ricordano tutto (anzi meno perché non aveva quella pancia) il protagonista dei fumetti (poi kolossal di cartoni animati) di Goscinny.
Romano mi incoraggia al gusto, lui che avrebbe mangiato una tavola intera per ricominciare. Unica «allergia» quella agli alcolici, babà esclusi. 
Erano 25 anni fa... Nevers: la Loira, i suoi castelli, la sua cucina stellata, le visite guidate... parole al vento con te Romano.
E poi quell'alternare l'italiano al dialetto, utilizzando egregiamente e mai fuori posto i due codici linguistici.
Tra i bresciani c'era anche il peperino vanitoso sempiterno Giacomo Danesi, fissato con l'araldica e le genealogie.
Il tuo intercalare è sempre stato la conferma della tua bellezza: parlavi come gli allenatori di cinquant'anni fa, che considerano ognuno in squadra da una vita, parlandoci come fosse stato in squadra da sempre.
Questo sia chiaro: è dote di uomini grandi e uomini buoni.
Meglio detto, è di uomini rarissimi. E infatti di Romano Gandossi non ne troveremo più.
Il gemellaggio con quel pezzo di Francia proseguì poco tempo dopo al castello di San Giorgio, nella seconda, forse prima, patria di Romano, che dopo essere cresciuto come corrispondente al Giornale di Brescia, a Bresciaoggi e alla Gazzetta di Brescia di Prandini, raggiunse la redazione sportiva di Bresciaoggi e poi la Voce di Mantova, da sempiterno appassionato di cronache sportive. 
E nella redazione di piazza Sordello trovò anche la soddisfazione, negli ultimi anni di carriera, di diventare direttore.
Romano non mi ha lasciato mai.
Ogni tanto mi richiamava perché sapeva sempre con chi soddisfare la sua curiosità o la sua voglia di parlare. Proprio come un vero cronista, termine più preciso di giornalista.
Perché la cronaca appartiene al quotidiano ed emerge sempre dalle relazioni, da una chiacchierata che viene avviata come una semina: si parte con un ciao e si scoprono notizie che non avresti mai trovato altrimenti.
Una volta era per parlare di Cogeme quando collaboravo col gruppo e lui era a capo di Sageter, la linea dedicata all'energia, per via di una nomina politica.
Altre volte per i sassolini che si voleva togliere rispetto all'Amministrazione comunale di turno.
Poi venivano le telefonate di aggiornamento sui cambi nel board di Bresciaoggi tra capiservizi, capiredattori e redazione. E allora lì non si finiva più e affioravano i suoi ricordi. Come quando giovanissimo caposervizi ammoniva le burbe dal ricevere premi e premietti in redazione a seconda dei titoli fatti (brutto da credere ma c'era chi prendeva le stecche se metteva una o più volte tra titolo, catenaccio e occhiello il nome dell'azienda sponsor delle squadre).
Un giorno esco con Andrea Maina, ex sindaco di Comezzano-Cizzago, a fare un giro per paesi (ogni volta che passavamo persino una località isolata era in grado di raccontarmene storia e personaggi) e arriviamo a Trenzano. Manco a dirlo troviamo per la strada Romano.
Abbiamo fatto salotto all'angolo del paese per un'ora tanti erano gli aneddoti che saltavano fuori.
La voce di Romano era la voce della speranza, della gioia, della curiosità, perché era la voce di un bambino.
E' stato così fino alla fine...
Da quando si è ammalato di Covid ha intrattenuto con me decine di telefonate.
Parlavamo di tutto e io ignoravo volutamente qualsiasi rischio di compassione. E mi è venuto facile perché era lui il primo a cacciare giù l'uggia.
E a lui è venuto incredibilmente più facile che a me.
Ma sapevo quanto soffriva, come quando, con finta sorpresa, mi raccontò del prete che visitava gli ammalati e che giunto a lui si mise a piangere per i giorni che aveva trascorso in corsia.
Forte era la sua ideologia di destra, insospettabile vista la sua docile indole.
Ha affrontato il Covid con una lucidità enorme, al punto di non chiedere dimissioni dall'ospedale, anche una volta superato il momento peggiore, finché non sarebbe stato consegnato alla sorella in condizioni davvero recuperate.
Tre giorni prima di morire mi ha chiamato per esultare del suo bastone abbandonato.
«Cammino da solo e sto benone, ti aspetto per un gelato ma segui i miei volontari che domenica vanno in pellegrinaggio al santuario di Calcio».
 

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