Brescia sotto le bombe e io alunno

14 febbraio 1943: Il bombardamento vissuto da un piamartino rovatese
Ritratto di Massimiliano Magli


L'istituto Piamarta, che si trova in via Cremona a Brescia, anche nel 1943 apriva l'anno scolastico a metà settembre. Una settimana prima i grandi avvenimenti storici: l'armistizio della guerra firmato l'8, lo smarrimento dell'esercito, chi fuggiva, chi si nascondeva: marasma generale.
Poi quei pochi che avevano aderito alla nuova Repubblica Sociale Italiana, i cosiddetti repubblichini.
Ma a noi studenti era sconosciuto l'evolversi delle vicende in atto. Non c'era la televisione, nulla si sapeva dalla radiotrasmissioni.
Eravamo «interni», per cui dal convitto si usciva solo per le vacanze di Natale e Pasqua.
Però rispetto all'anno precedente che qualcosa fosse peggiorato lo si era capito.
La refezione, innanzitutto. Le tessere per l'acquisto di generi alimentari avevano ancora ristretto la possibilità di spesa, malgrado il tanto da farsi del direttore P. Narciso Barbera affinché le cose cambiassero un po' in meglio.
Tutto inutile: e allora la fam, la fame dei 14-15enni che languiva e tormentava lo stomaco.
Un panino di pochi grammi a pranzo e a cena con poca pietanza.
Ancor peggio il mattino: una fetta di pane biscottato e una piccola scodella di latte che, chissà perché, quasi sempre sapeva di bruciato.
A condensare arrivò l'inventiva del vice direttore, Padre Andreotti, toscanaccio verace che pretendeva sempre e ovunque di sentir parlare la lingua italiana. Guiai a noi a parlare il dialetto di casa, lo detestava.
Ancor di prima mattina lo studente che sgrarrava veniva insignito, anzi impalmato, con un medaglione argentato con l'effige del duce. Che poi passava di mano in mano tra chi commetteva lo stesso «errore».
Il peggio era per colui che otteneva il medaglione quando era l'ora del pasto: non poteva mangiare il panino! Sorrido oggi quando lo ricordo, ma a quei tempi, in quella età...
Si arriva a novembre: molto freddo e tanta nebbia. Una sera, verso le 20, entrò dal cancello in via Cremona un corpulento di bassa statura, non giovane, in divisa militare grigio verde. In testa cappello alla guisa alpina, ma senza penna. Sulla spalla un moschetto: urlava il tizio, minacciava, proferiva bestialità contro noi studenti, assistenti, perché diceva era da irresponsabili ricrearsi in tempo di guerra.
Difatti era per noi l'ultima mezzora di ricreazione nella nebbia e nella luce di fioche lampade tinte di blu sotto il portico. Vigeva l'obbligo dell'oscuramento in quei periodi.
Poi l'ossesso, evidentemente ubriaco, arrivò dov'era la parte coperta, tra l'entrata al «teatro» e l'ufficio economato del signor Forti: sfilò dalla spalla il fucile e, da quell'incosciente forsennato qual era e a dimostrare che faceva sul serio, infilò il colpo in canna e premette il grilletto.
Ancora ricordo bene la fiamma gialla e blu fuoriuscita dalla canna e il boom che rintronò moltiplicato per cento, per mille, siccome era al coperto.
Poi il turpe mostro arrivò ai piedi della scala che porta ai piani superiori dove un'altra volta espresse il suo valore e nell'assoluto silenzio di noi spettatori pietrificati dallo spavento, sparò ancora un colpo.
Infine se ne andò.
Era un «repubblichino». Quella triste sera facemmo conoscenza dei loro istinti, delle capacità dei loro atti di eroismo.
Da quel tempo cominciò il peggio, altri tormenti, altre paure. Una notte sì e un'altra pure nel profondo sonno (dall'una alle tre di solito) le lugubri sirene di allarme.
Rimbambiti, assonnati e infreddoliti si scendeva dal piano più alto dell'immobile dove erano le «camerate» e sempre ordinati e composti prendevamo posto (si fa per dire) nel grande scantinato convertito in rifugio.
Ma in realtà non lo era.
Ragazzi inesperti sì, ma occorreva poco capire che se bombardati da là sotto più nessuno ne sarebbe uscito vivo.
Non esisteva nessuna uscita di sicurezza e con quel po' po' di roba che è l'edificio che ci avrebbe seppellito... Non riesco oggi a immaginare quanti dei cento e più di noi ospiti sarebbe potuto uscire vivo.
Là sotto, seduti su panchine, sempre con le luci fioche e gli occhi chiusi dal sonno.
E allora a risvegliarci di tanto in tanto colpi di cannone nella notte: venivano sparati nella zona aeroporto di Ghedi a aerei nemici, ma mai rombo di aerei si era percepito né di notte né di giorno.
Ma ogni notte, o quasi, risvegli con lo spavento delle sirene, levatacce, brontolii.
Al cessato allarme si risaliva al piano dei dormitori e, finalmente, la cuccetta.
Oddio come si stava bene sotto le coltri!
Benessere poco goduto perché alle 5.45 drin, drin, drin.
Tutti in piedi, nei bagni, per la pulizia della persona con acqua corrente, naturalmente fredda a ricordarci che eravamo nella stagione dei ghiacci, semmai fosse stato necessario.
Seguivano preghiere nella chiesetta interna, 20 minuti di studio, la colazione con quel latte dall'odore tanto strano.
Infine le lezioni, giustamente nella dovuta disciplina. Quando sgarravi nelle «chiacchiere» il bravo, bravissimo prof. di disegno Carpinoni aveva un modo di i dire e fare tutto suo.
Individuati i responsabili, abbassava gli occhiali a mezzo naso, puntava l'indice e calmo ti diceva: «Dì gnaro, va fora».
Fatta la somma del poco o niente dormire più gli spaventi più il freddo, più la malnutrizione il risultato non era mai quello quantificato nella pagella di fine anno, sia nel bene, che nel poco o niente (così almeno il mio 4 in matematica lo giustifico, no?).

14 febbraio 1944

Vigilia di San Faustino, ore 10 del mattino: suona l'allarme aereo, come tantissime volte nei mesi precedenti, di giorno e di notte. Comunque tutto fuori dall'aula.
Commenti soliti di noi ragazzi: «Brescia non sarà mai bombardata». Il perché era semplice: «Gli angloamericani non troveranno mai la nostra città perché sita tra le montagne».
Chiaro no? Quanto ci voleva per capire questo, è così semplice.
Ma quella mattina andò molto, molto diversamente.
Poco prima, poco dopo le ore 13, rumori sordi dall'alto, continui per un po'.
Arrivavano dalle montagne e oltre. Noi studenti a guardarci negli occhi. Che succede?
La risposta è venuta dal cielo limpido, terso, azzurro.
Lassù in alto, molto in alto, punti oscuri, ma tanti, tanti e tutti con scie bianche.
Mai visto prima spettacolo simile.
Erano stormi di aerei.
Vuoi vedere che hanno scovato Brescia?
Era la domanda con tanta paura. Ma perché ogni aereo lascia la scia?
La risposta stava nella fisica ma usi a quel capitolo non eravamo arrivati ancora.
E allora concordemente si pensò: i piloti prima di bombardare ci invitano a lasciare la zona e scappare.
Ma dove, e poi siamo lontani dal centro città. Furono queste le ultime parole «famose». Percepimmo i primi sibili delle bombe in arrivo, seguiti da scoppi, da boati.
La gente (e con la gente anche noi naturalmente) impazzita che scappava, urlava, piangeva, pregava.
Quasi tutta poi aveva trovato il posto giusto nei campi coltivati che stavano a sud, anche a ridosso del nostro istituto.
I fossi di quei terreni agricoli erano stracolmi di persone ammucchiate come sardine in scatola.
Tre suore vestite in bianco candore, più di ogni altro, terrorizzate, in difficoltà sul come e dove potevano trovar posto vennero investite di insulti e rimproverate perché, secondo chi stava rannicchiato nei fossi, da lassù i piloti possono scorgere meglio e scaricare altre bombe.
E a profferir questo non erano i giovani studenti inesperti, ma adulti fuori di testa dalla paura. Durò circa mezzora il bombardamento, se ben ricordo, e al tirar delle somme mai fu tanto sbagliato quanto le ultime parole «famose».
Infatti, gli ordigni sganciati in maggior numero colpirono principalmente l'area dallo scalo ferroviario a partire da via Sostegno, fino allo Sperimentale.
Ecco, proprio nei pressi della nostra scuola.
Tutto il peggio fu.
Uscito dal cancello per scappare e tentare di arrivare a Rovato, ricordo alla sinistra tante buche, ma una soprattutto era davvero una voragine: in fondo a essa c'era un cavallo dilaniato dalle schegge e ai bordi tanti passerotti, chissà perché ricordo anche questo...
Eppoi si salvi chi può. Tutto di un fiato mi sono trovato in piazza Garibaldi e via di autostop: si fermò il birroccio sul quale mi accolse una signora di Coccaglio che pure scappava al terrore.
Mi prende ancora l'emozione nel ricordare quando la mamma mi vide arrivare nella contrada Santo Stefano. La percorse a braccia aperte per abbracciarmi. Da alcune ore avevano sentito e saputo dell'accaduto in città, ma nessun altra informazione a seguire.

Due o tre giorni dopo ritornavo dall'istituto Piamarta. Dentro di me tanta malavoglia e, perché no, preoccupazione, paura.
Nel tempo a seguire per tutti noi rientrati la casa, la nostra casa, quella vera, era diventata un miraggio e con tanta malinconia si invocava: «Piamarta, Marta pia, quand'el che poss 'nda via?».
Ricominciò la solita routine condensata di paure, privazioni e sacrifici con l'aggiunta dei biechi tedeschi e arrabbiati «repubblichini».
Proprio in quei periodi, quei signori avevano tratto in arresto padre Ilario Manfredini, parroco della contigua parrocchia S. Maria della Vittoria.
Il sacerdote scriveva pezzi sul settimanale «La voce cattolica», firmando con lo pseudonimo Pim (p. Ilario Manfredini). Qualcosa di quanto scriveva evidentemente non era piaciuto alle autorità di quel tempo, meglio arrestarlo e tradurlo a Canton Mombello, allora.
E nelle mattine, due la settimana, dedicate alla «pratica» presso l'istituto Artigianelli (che si raggiungeva a piedi) sul percorso il carcere citato con quelle grate scure a scivolo rivolte verso la strada, Dalle file di noi studenti, in coro, ma sottovoce: «Pim».
La paura non permetteva altro, forse la voce non arrivava, ma noi eravamo contenti di avere salutato quel prigioniero.
E dopo il carcere, non tanto dopo, sulla strada (non ricordo la via) quel grande palazzone che faceva angolo con un'altra strada pure ampia.
All'altezza del secondo piano un lungo telo bianco dove si leggeva a grandi caratteri: «Kommandatur». E tante bandiere, solo germaniche.
Dove c'era il portone di entrata due garrite e due soldati con elmetto armati di fucile Mauser. Per il resto dell'esteso immobile altri militari ancora armati di Machin Pistola a tracolla. E ancora moto sidecar che perlustravano tutta quella zona.
Tutto da vedere, ma di sottecchi. Non giravamo il collo più di tanto tanta era la paura, brividi.
Arrivati in via Musei, gli Artigianelli, una mattina era dedicata alla falegnameria, dove il maestro era un certo Giulio, sempre brontolone ma dal cuore buono.
L'altra mattina era in officina meccanica, diretta da un altro maestro, Maccagnola, severo ma comprensivo. Ma l'officina la detestavo: brutti odori, mani sporche di minio e unto. No, proprio non mi piaceva.

Adesso penso proprio sia ora di chiudere con i miei ricordi di quel triste e tribolato anno scolastico 1943-1944. Anche se tanti altri li tengo indelebili nel computer del mio cervello.
Pochissimi buoni, tanti molto brutti, troppi spaventi, troppe privazioni.
E tutto il peggio dovuto alla guerra e ancor più ad attori che definire criminali è troppo poco.
Non posso neanche dimenticare chi ebbe a curarsi di noi in quei brutti momenti: bravi e zelanti con quella severità necessaria quando tutto era buio e difficile.

Tarcisio Mombelli

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