Come cambiare in meglio la nostra scuola

L'intervento del dirigente Rodolfo Apostoli sul Giornale di Chiari
Ritratto di Redazione
L'ex dirigente della direzione didattica Turla Rodolfo Apostoli

Parlare della scuola e criticarne il suo essere inefficace, la sua incapacità di comunicare, la sua immobilità in un contesto di evoluzione frenetica, il suo intestardirsi a trasmettere nozioni in modo acritico perdendo di vista, spesso, la finalità educativa è come sparare sulla croce rossa: è facile colpire il bersaglio, non si corrono rischi ed al massimo si può suscitare qualche protesta.
Abbiamo sottolineato più volte che la scuola attuale è in generale il luogo dove si coltiva la malaripetizione poichè non esiste un vero spazio per l'interazione, per la conversazione in quanto lo studente è per lo più marginale, ossia deve corrispondere ad uno schema rigido che si trascina da ormai troppo tempo: tu non sai , io, docente, ti insegno quello che so e tu devi solo studiare, magari ripetere quello che ho detto senza azzardarti ad esporre il tuo pensiero.

In un passo della "Lettera a una professoressa" leggiamo, formulata come accusa, un'idea che purtroppo trova molto credito:"Un ragazzo che ha un'opinione personale su cose più grandi di lui è un imbecille. Non deve avere soddisfazione. A scuola si va per ascoltare cosa dice il maestro...".
Potremmo affermare che i problemi della scuola sono noti, da molto tempo, a tutti, ma nessuno "vuole" porvi rimedio e se si ha il coraggio di impegnarvisi seriamente si viene bocciati come è successo al Ministro all’Istruzione Luigi Berlinguer che aveva, a suo tempo, tentato di scardinare questo Moloc.
Criticare, abbiamo detto, è come sparare sull croce rossa e lo vogliamo fare nell'illusione e con la presunzione di scuotere dal torpore nel quale le componenti scolastiche, insegnanti, genitori, sindacati e politici si sono rannicchiate.
La scuola è finita da tempo, non risponde più alle esigenze per cui è stata concepita. Ha perso la sua funzione educativa e cerca di autoalimentarsi per non soccombere.Rifiuta quasiasi innovazione che possa ledere, anche minimamente, i pilastri su cui è fondata: la classe, l'insegnante di classe, il programma di classe, con tutto ciò che ne consegue. Tuttavia è proprio grazie a questa coazione a ripetere, nononstante gli avvertimenti lanciati nel corso degli ultimi decenni del secolo scorso da studiosi e scrittori di varie provenienze, che il sistema scolastico si autoaffonderà.
Cresciuta durante l'industrializzazione dell‘Ottocento, la scuola mantiene intatta la sua struttura organizzativa, rigida ed ingessata, refrattaria a qualsivolgia flessibilità. Infatti, l’attuale sistema scolastico si sviluppa a livello europeo nel1800 con il rafforzarsi degli stati nazionali e si consolida, giungendo fino ai nostri giorni, in un modo fossilizzato ed intoccabile.Il modello gentiliano, per quanto riguarda l'Italia, rimane, tuttora, il riferimento cardine per tutti coloro che operano all'interno e all'esterno della scuola.
Il contenuto dell''insegnamento è, in effetti, proprietà del docente che lo trasmette agli studenti in modo rigido in quanto l’insegnante è incardinato alla disciplina ovvero alla materia di cui detiene il sapere, mentre gli allievi sono raggruppati in classi costituite unicamente secondo un criterio anagrafico.La lezione frontale, applicata regolarmente dalla quasi totalità dei docenti, è ritenuta, ancora oggi, il sistema migliore per la trasmissione del sapere, nonostante il fatto che le ricerche internazionali in campo psicopedagogico, ne abbiano da tempo contestato la validità. La legislazione promulgata dai vari ministri che si sono avvicendati nell’ultimo trentennio, non ha fatto altro che avvalorare l'inefficacia di quegli interventi innovativi che alcuni studiosi, ma, soprattutto, alcune realtà scolastiche andavano sperimentando sul territorio nazionale sia pure in ordine sparso, sul versante organizzativo e didattico, ( si pensi alle esperienze del cosiddetto tempo pieno , alla scuola senza classi, ecc ), propugnando un ritorno al passato, assumendo il principio che la "scuola di una volta" funzionava meglio: insegnante unico, tuttologo e tuttofare, nella scuola "elementare", una pletora di docenti per la scuola superiore di primo o secondo grado senza che fra di essi ci sia la benchè minima possibilità di passare ad una gestione condivisa dell’atto educativo, ad unaprogrammazione comune degli interventi didattici...Infatti è tuttora scarsa la possibilità che i docenti hanno di instaurare una relazione compartecipata con gli studenti e gli stessi strumenti tecnologici introdotti per "rendere moderno l'apparato", sono, spesso, utilizzati per avvalorare il potere dell'insegnante nell‘aggiungere contenuto a contenuto, per aumentare e giustificare la frenesia del programma e ovviamente della malaripetizione.Si fa qui riferimento, esemplificando nello specifico, al distorto utilizzo delle mitiche LIM (Lavagne Interattive Multimediali) divenute lo strumento, utile ad aumentare la possibilità di cercare nozioni da trasmettere agli studenti senza stabilire nessi tra le medesime.
Non c'è tempo per conversare e lo studente rimane al margine del processo d'insegnamento attuato dalla scuola. Manca ogni posisbilità di comunicazione, di dialogo, di interazione, di conversazione.
"L'alunna R. tenta di stabilire un contatto intergalattico tra se stessa e la professoressa di italiano". Questo si legge nelle note sul registro di un insegnante di lettere delle scuole superiori. Ironicamente e forse tragicamente dimostra quanto sia vera questa distanza e questa incomunicabilità tra docente e discente.
Il mito della "centralità dell'alunno", concetto portante di molta retorica pedagogica e della propaganda politica non ha trovato (fatta eccezione, forse, ma in non molti casi, per lo più nella scuola dell'infanzia e primaria) una vera rispondenza nei metodi di insegnamento, né tanto meno nell'organizzazione della nostra scuola. La rigidità organizzativa, la formula didattica della lezione frontale, la farraginosità e "mostruosità" dei contenuti da trasmettere, ottengono, come risultato, l'eliminazione degli allievi che non rientrano nei paramentri prestabiliti. Ritorna, così, alla mente, dalla mitologia greca, il gigante Procuste ed il suo letto: i malcapitati viandanti che attraversavano il suo territorio venivano collocati sul suo letto. Il fortunato viaggiatore che, per la sua statura, rientrava nelle misure del giaciglio era ben accolto, ma chi avesse avuto per sua sventura una statura esuberante, veniva accorciato per essere adattato alle dimensioni del letto e chi non avesse ricevuto da madre natura una statura adeguata, subiva giustamente un allungamento fino ad assumere le dimensioni del fatidico letto. Così, dunque, chi non rientrava nelle misure prestabilite da Procuste veniva eliminato. Siamo molto propensi a credere che buona parte della scuola lavori in questo modo davanti a tassi di abbandonoe/o di ripetenza elevatissimi, come fonti ufficiali lo testimoniano collocandoli intorno al 19-20% (ricerche OCSE 2007; ISTAT 2012), mentre la conferenza di Lisbona chiede agli stati europei di scendere almeno al di sotto del 10% .
Tuttavia ciò non induce al cambiamento, anzi la tendenza volge verso la penalizzazione dello studente. Infatti è molto diffusa l'idea che la bocciatura sia indice di scuola seria.Gli studenti sono, per lo più, terminali e casuali fruitori di un servizio che a partire dai genitori, agli insegnanti, alle organizzazioni sindacali, sociali e culturali viene definito come il meglio possibile predisposto per il loro bene. "Ciononstante essi rifiutano l'offerta: vestiti in modo improbabile, dipendenti dai cellulari, dagli iPod, da Internet, dai social network, irresponsabili e turbolenti, assenteisti e indisciplinati, disattenti ed esperti in copiatura. Insomma: non sono più quelli di una volta"..
E' messo in discussione il problema del rapporto fra docenti e studenti divenuto insolubile e fonte di conflitti. I docenti sono a disagio e sempre più manifestano sindromi da burn out, ma la sofferenza non sembra generare una autocritica per un vero rinnovamento. Anzi si traduce, spesso, in una difesa della propria funzione e con note dolenti si va declinando sempre più quel malessere chealimenta non poco la nostalgia per una scuola che non c'è più. Il ricordo torna "alle vestali della classe media" che reiterano riti obsoleti di una vecchia liturgia per una messa alla quale ormai pochi credono. Affiora la visione di una "partecipazione assente" per la quale tutti sono presenti e attenti, genitori ed insegnanti, ma la loro presenza si risolve nell'accettare o anche solo riconoscere attraverso piccoli segni i risultati di un processo che rimane sconosciuto. Non si sa chi, non si sa come qualcuno decida e agisca mantenendo attivo un sistema sul quale nessuno vuole intervenire. I personaggi della scena appaiono tutti emarginati e/omarginali, ma nello stesso tempo funzionali al sistema stesso che in questo modo si autoalimenta. “La macchina del vuoto” continua a girare inutilmente mantenendo in vita una fabbrica classificata a suo tempo come “fabbrica del deficiente”.Il sistema si è leggermente evoluto, ma ha mantenuto la sua caratteristica di riproduzione e omologazione al modello sociale e nella trasmissione di una cultura comune, intesa come l’insieme delle norme e dei valori elaborati dallo stato nella propria evoluzione. Le indagini internazionali hanno dimostrato ampiamente come il modello sia attualmente inefficace. Il problema non è nuovo e la malattia del sistema scuola è stata diagnosticata da tempo da pedagogisti e pensatori di ogni tipo e di ogni tempo. Denunciato da insegnanti capaci ed attenti all'evolversi della società, educatori che non si sono rifugiati dietro il paravento della scarsità dei mezzi e della burocrazia istituzionale, ma che si sono giocati il tutto per tutto dimostrando la possibilità di rinnovamento insita nella stessa istituzione.La scuola oggi si regge e non affonda grazie all'impegno di alcuni docenti e pochi dirigenti che si assumono l'onere di dimostrare che, se molto rimane da fare, molte tuttavia sono le possibilità che la scuola ritorni ad assumersi la responsabilità educativa e di istruzione che le compete. C'è sempre qualcuno che alla fine salva la baracca. D. Pennac parlando del suo professore di matematica dice: "..un individuo curiosamente acuto, calmo e buono. Strana bontà nata dalla conoscenza stessa, desiderio naturale di condividere con noi la materia che lo mandava in visibilio...impiegò quell'anno a tirarci fuori dall'abisso della nostra ignoranza, divertendosi a farlo passare per il pozzo stesso della scienza; si meravigliava sempre di ciò che nonostante tutto sapevamo. - Credete di non sapere niente, vi sbagliate, vi sbagliate, sapete una grande quantità di cose!...Certo quella maieutica non bastò a fare di noi dei geni della matematica, ma per quanto profondo fosse il nostro pozzo, il prof. Bal ci portò tutti a livello dell'orlo...". L'elenco, antico, di coloro, noti e meno noti, che hanno ampiamente dimostrato "che nella scuola si può", ci porterebbe lontano, ma è giocoforza citarne alcuni, a cominciare dall'inizio del secolo scorso come Maria Montessori, Maria Boschetti Alberti, Celestin Freinet, Camille Desmoulins, Ovide Decroly, ed in tempi a noi più vicini, Mario Lodi, Albino Berardini , Don Lorenzo Milani della cui opera, a torto o a ragione, a destra come a sinistra, tutti si sono riempiti la bocca appropriandosene e portandolo ad esempio, per poi, sconsolatamente, affermare che la sua esperienza è irripetibile ed a classificarlo quindi come obsoleto, d'altri tempi. Tutte queste eperienze avevano o hanno, tuttavia, in comune una caratterisitca: il rapporto con lo studente, la necessità di rifarsi alle emozioni, ai sentimenti, alla condizione sociale, alla voglia di imparare che i ragazzi hanno, alla comunicazione diretta fra persone che possono guardarsi in faccia.. Per agire in questa direzione hanno dovuto ascoltare, parlare, conversare senza la fretta di impartire nozioni, senza l'assillo dei programmi, senza il vincolo dei libri di testo, senza l'obbligo di esprimere giudizi e voti , ma con la capacità di valorizzare ricerche, di appoggiarsi agli errori dando ad essi il valore di tentativi messi in atto per capire, per agire, per ricercare, per costruire, hanno operato in forma maieutica cercando di "tirar fuori" ciò di cui scolari e studenti sono portatori, si sono fidati di loro sapendo che:"I buoni studenti hanno fiducia nella propria capacità di imparare e godono nel risolvere dei problemi, preferiscono affidarsi al proprio giudizio, sono rispettosi dei fatti, aboriscono dalle risposte precipitose, non hanno paura di sbagliare". Ci sia consentita ancora una citazione da "Lettera a una professoressa" di don Milani: Barbiana, "quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Nè cattedra, né banchi, né lavagna, Solo grandi tavoli intorno a cui si studiava e si mangiava. D'ogni libro c'era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica ad accorgersi che uno era un po' più grande e insegnava. Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione."
E' don Milani, ma sembra quasi riecheggiare conversazioni attorno a un tavolo in una società conviviale in cui il libro (lo strumento tecnologico) è utilizzato e utilizzabile dall'intero gruppo e non riservato allo specialista che lo tiene sotto il proprio controllo.
La speranza è sempre l'ultima a morire e noi che vogliamo un rinnovamento della qualità della scuola, siamo premuti dalla necessità di rivoltare il coltello nella piaga con l'idea di far emergere le contraddizioni che il sistema educativo italiano (e non solo) coltiva in sè.Continuiamo, quindi, nella nostra pars destruens prima di addentrarci in una successiva pars construens. Molte contraddizioni del sistema scuola , spesso avvalorate dai documenti istituzionali, assumono la pretesa di chiamarsi riforma. Contro di essa alcune componenti scolastiche si sono prima opposte con accanimento, ma poi hanno finito per accettarla e gestirla anche perchè alla fine tornava a loro vantaggio. Così si vedono avanzare progetti di scuola dagli orari impossibili, con lezioni mattutine gestite per sei ore consecutive proposte anche ai bambini più piccoli, con calendari scolastici pieni di buchi alla ricerca disperata di giorni di vacanza senza che ci sia alcuna giustificazione che poggi su motivi didattici o quanto meno su un legame con il proprio territorio , libri di testo ridotti ad eserciziari , abolizione, per i docenti, dell'obbligo della formazione continua. Non vogliamo tuttavia sgranare il rosario delle incongruenze presenti nella scuola, ma certo dobbiamo denunciare il fatto che non esiste centralità delle esigenze degli alunni.Le scelte sono determinate da principi economici aggrappandosi ai quali si ritorna indietro, di mezzo secolo, riproponendo modelli organizzativi obsoleti e di scarsa efficacia, forme didattiche che non ci stancheremo di definire di mala ripetizione. "Le buone pratiche" come si usa dire oggi sono definite e valutate da quegli stessi che le pongono in opera.Le ricerche internazionali: OCSE, IEA ci bocciano inesorabilmente.Le ricerche nazionali, come la fondazione Agnelli, rilevano come la scuola superiore di I° grado sia l'anello debole del sistema e ne propone la riorganizzazione incidendo sul tempo scuola, sull‘organizzazione delle attività, sulla revisione dei programmi, per altro già definita, ma non attuata. Tutte queste proposte possono essere discutibili fin che si vuole, ma certamente sono oggettive nella valutazione del sistema nel suo complesso. Dal punto di vista organizzativo la scuola secondaria di I° grado si presenta con un modello a "insegnante prevalente" e benchè , non funzioni, è tuttavia sponsorizzata dalle ultime indicazioni ministeriali, con un tempo scuola concentrato al mattino , con il susseguirsi di quattro, cinque insegnantiche porta gli studenti alla schizofrenia. Del resto non è prevista alcuna forma di programmazione e progettazione obbligatoria per i docenti, non esiste alcun rapporto di trasversalità fra le discipline e ciò induce una forte penalizzazione per figli delle famiglie che hanno meno possibilità di compensare gli squilibri della scuola, compresi i disabili ed i figli degli immigrati. Siamo ben lontani dalla realizzazione di quell‘ uguaglianza delle opportunità di conseguire il successo scolastico, uguaglianza per altro prevista dalla nostra Costituzione repubblicana. Cio nonostante la "scuola media" viene assunta dai genitori e spesso anche dai docenti della primaria, come esempio cui adeguarsi: impostazione organizzativa ad insegnante prevalente, disciplinarizzazione dell' insegnamento, attività di "malaripetizione" concentrata solo al mattino e carico di compiti per gli studenti da eseguire a casa.La tesi che andiamo via via esplicitando è contro questa scuola assurda, che sta travolgendo i valori della nostra cultura, costringendo intere generazioni di giovani a trascorrere ore, giorni, settimane e anni ad ascoltare, memorizzare e ripetere lezioni, scrivere compiti, leggere libri, con un atteggiamento di passiva e ineluttabile obbedienza, in omaggio ad una serie infinita di doveri di cui non comprendono né la necessità, né l'utilità.Una scuola dalla quale i giovani escono, nella maggior parte dei casi, senza alcun interesse, senza aver potuto dar libero sfogo alla loro naturale curiosità, triturati e omogeneizzati dalla banalità di un insegnamento che non li coinvolge minimamente. Sono gli insegnanti stessi a lamentare tutto questo come si evince dalle note scritte sul registro di uno di loro: "L'alunno R afferma che è più interessante guardare la vernice che si asciuga sui muri che assistere alle mie lezioni".
Il problema sta ancora una volta in "quell'assistere alle lezioni": il peccato originale di ogni didattica. Non c'è relazione, non c'è discussione, non c'è, in una parola, ciò che abbiamo chiamato "Didattica conversazionale". Tutto ciò conduce ad analisi e problemi risaputi per cui vogliamo rifarci a studiosi della cultura internazionale per mostrare, come circa un secolo fa, eminenti personaggi avevano previsto il triste evolversi dell'istituzione scolastica. Così scriveva Giovanni Vailati "Uomini colti, insegnanti, studiosi di pedagogia che respingerebbero con terrore la proposta di impegnarsi fosse anche solo per una settimana, ad assistere a tre conferenze al giorno, l’una di seguito all'altra, anche sui soggetti che maggiormente li interessassero, non sembrano vedere l’assurdità didattica, igienica e psicologica di ordinamenti scolastici che costringono i ragazzi dai dieci ai diciotto anni a rimanere inchiodati, in media per cinque ore al giorno, durante anni interi, sui banchi della scuola, come se non vi fossero altri mezzi per ottenere gli scopi che così si raggiungono per parlar più esattamente, gli scopi che si crede così di raggiungere (Giovanni Vailati - 1906 - matematico e filosofo).
Laura Lombardo Radice scrive: "finché noi avremo, - come per fare l'esempio che mi è più vicino, negli istituti magistrali – dalle dodici alle quindici materie per anno, ognuna con le sue brave sottosezioni, in un totale di una trentina di ore di insegnamento settimanali, ( che viene ad essere cinque ore al giorno di media) finché noi avremo la pretesa che a queste ore di apprendimento in comune ne corrispondano circa altrettanto di lavoro personale e di ripetizioni, finché noi metteremo quindi lo studente dai dodici ai diciotto anni nelle condizioni di un operaio di "Metello" (giornata lavorativa dall'alba al tramonto; e fatto questo ci ricorderemo poi del bisogno di riposo dei ragazzi soltanto lasciando qua e là vacanze a casaccio, allungando le ferie estive e dimenticando di accorciare i programmi; finché la scuola sarà una cosa con programmi che nessuno ha mai potuto svolgere,(cioè abbracciare per intero con trenta ragazzi da interrogare, cioè da conoscere uno per uno e giudicare ogni due mesi in modo equo); finché questo caos, questa ipocrisia della dottrina scritta sulla carta e dell'ignoranza reale, della fatica e dell'ozio distribuiti all'impazzata, finché insomma, questa scuola brutta copia degli otia cum litteris di Cicerone, non sarà scomparsa, noi non potremo parlare sinceramente di educazione, dell'avvicinarsi dell'attività scolastica agli effettivi bisogni della società italiana"1(Laura Lombardo Radice ins. Di Lettere 1913-2003). Persino piccole ricerche locali che non hanno la pretesa di lanciare a più vasto raggio il risultato della loro indagine, offrono uno spaccato abbastanza significativo della realtà scolastica. Citiamo, a mo' di esempio, la ricerca sulla condizione di una classe di preadolescenti realizzata a Brescia. L‘indagine è stata svolta non su campione, ma su l'intero universo: la classe d'età 1984. Dall'analisi fatta dai ricercatori appare evidente che tutti gli studenti mantengono un ricordo sostanzialmente positivo dell'ambiente scolastico e, in notevole numero, vi fanno ritorno alla ricerca dei ricordi passati. Sicuramente il clima sociale dell'ambiente vissuto, ha lasciato in molti alunni nostalgia del tempo passato e voglia di riviverlo. Non può, comunque, sfuggire che gli studenti ricercano del tempo passato soprattutto l'incontro con le persone, siano esse adulti o coetanei..Della scuola materna rimane impresso anche il tempo dedicato al gioco e alla ricreazione oltre agli insegnanti. Della scuola elementare sono le maestre e soprattutto gli amici ad essere ricordati. Nel passaggio alla scuola media appare il rammarico di aver perso gli amici degli anni precedenti. La relazione con i pari sembra diventare, con il crescere dell'età, l'elemento di maggior spicco e valore dell'esperienza scolastica, ciò che merita di essere ricordato e rimanda in secondo piano i riferimenti alle attività specifiche della scuola, agli apprendimenti, all'organizzazione, alle abitudini. Passando in rassegna persone e attività, situazioni e abitudini, cercando di entrare nel merito di ogni singola risposta, si ricava l'impressione che la scuola appaia e sia vissuta, per tutto ciò che fa, in modo distaccato.L'attività, il programma, i compiti gli interventi di stimolo o punitivi sono elementi di un tempo occupato , ma di non particolare rilevanza come qualità. Ostacoli da superare per necessità perché non si possono evitare.La scuola è osservata, con distacco, da parte di alunni, genitori e direi anche di insegnanti. Scarso è l'ancoraggio a ciò che di solito si ritiene importante nella vita e per la realizzazione personale. Inutili appaiono gli interventi punitivi, distaccata la valutazione del lavoro scolastico.I ragazzi sono sorpresi e rammaricati, in molti casi, per la bocciatura subita, quasi si trattasse di un accadimento improvviso e non di un fatto conseguente ad un difficoltoso processo di sviluppo. Manca in loro, nei confronti delle disavventure scolastiche, una capacità critica e di autovalutazione.Per avere un criterio di valutazione del sistema scuola e per definirne la funzione, riproponiamo qui la metafora del termostato, proposta da Neil Postman "..la stabilità e la vitalità di un ambiente dipendono non da quello che c'è nell'ambiente, ma dall'interazione dei suoi elementi, ossia dalle loro diverse e dinamiche complementarità....Non c'è cambiamento, sviluppo o crescita immaginabile - ad ogni livello di organizzazione - che non tardi a farsi letale se non c'è una tendenza contrapposta nel sistema......il concetto migliore dell'istruzione è quello di una attività termostatica. Da questo punto di vista, grosso modo, l'istruzione cerca di conservare la tradizione quando il resto dell'ambiente è innovativo; oppure è innovatrice quando il resto della società è legato alla tradizioneNon ha alcuna importanza che la società sia dinamica o statica: la funzione dell'istruzione è sempre quella di offrire una controargomentazione, il rovescio della medaglia......." Al contrario ci si trova spesso di fronte ad una scuola chiusa in se stessa, incapace di uscire dalle sue abitudini, dai suoi riti, una scuola dal sistema stratificato, specchio, conferma e riproduzione della società di cui è un sottosistema.La partecipazione delle famiglie, auspicata negli interventi legislativi degli anni 70/80, non si è realmente concretizzata se non in piccola parte, ovvero, di fatto non ha mai inciso realmente su una gestione condivisa dell’istituzione scolastica, tanto che la partecipazione agli organi collegiali è di fatto diminuita. Se ne evince un ritratto di studenti incapaci di applicarsi, insegnanti impegnati per una attività che sembra senza relazioni, avulsa e staccata da ogni contesto, come se tutti fossero costretti dal perseguire necessità incomprensibili. La bocciatura, la sospensione, la nota sul registro; interventi che non sembrano, nella ricerca citata, abituali o comunque sono numericamente limitati, denunciano tuttavia il persistere di un sistema impositivo, punitivo in un contesto che dovrebbe essere di diritto accogliente e motivante.Con l’applicazione di una sanzione, si obbliga lo studente ad usufruire di un proprio diritto.E' una contraddizione in terminis, ma così avviene perché la scuola è tanto accettata razionalmente come un diritto, quanto è vissuta emotivamente come un’ imposizione che non ha nessun rapporto con la realtà che circonda lo studente. "A scuola ci vado perché ci van tutti, perché senza la scuola non saprei cosa fare...." se queste sono le risposte, avvalorate, peraltro, da molta disattenzione da parte di docenti e genitori, è chiaro che il tempo scolastico assume la connotazione di un tempo debole, necessitato, ma da tenere ben distinto dal cosiddetto “tempo libero” vissuto come tempo forte, tempo della propria realizzazione. Quando nel tempo della scuola, lo studente non ha motivazioni, non è partecipe alla sua gestione, non raggiunge capacità di autovalutazione, di controargomentazione, assume atteggiamenti, abitudini e comportamenti tali per cui, anche nella gestione del suo tempo libero, si trova in difficoltà, demotivato, incapace di riempire un tempo che non è più libero, ma semplicemente vuoto. Il tempo libero diviene il tempo del consumo, il tempo dell'effimero. Se la scuola non porta lo studente ad autodeterminarsi, alla capacità critica, se la scuola non conduce alla partecipazione, non sviluppa la divergenza, e non si basa sulla creatività, avvia necessariamente gli adolescenti ad essere consumatori di un sistema, di un prodotto che altri, da sempre confezionano, per loro. Detto questo, va comunque rimarcato, che sicuramente l'istituzione, in tempi e modi diversificati, compie ed ha compiuto un grande sforzo per adeguarsi alle necessità ed alle esigenze degli alunni, per renderli capaci e consapevoli. Tuttavia risulta evidente che le bocciature e gli interventi punitivi sono ancora troppo numerosi per una “scuola dell'obbligo”. Lontana da noi l'idea che si voglia avvalorare la tesi di coloro che a tutti i costi vorrebbero abolire la bocciatura o forme affini di intervento. Anzi occorre rivalutare seriamente "una responsabile selezione scolastica di merito..." per un effettiva garanzia dell'uguaglianza delle opportunità di riuscita. Solo la presenza motivata del ragazzo nella scuola, può servire, infatti, allo scopo.E' importante che l’allievo recuperi la sua autonomia, la sua capacità critica e senta vivo l'impegno di docenti che lo sappiano indirizzare verso la sua autorealizzazione. Così egli potrà acquisire tutto ciò, attraverso i riconoscimenti altrui, sorretto dalle gratificazioni in ordine allo sforzo compiuto per soddisfare il proprio bisogno di conoscere. La scuola non può ridursi, quindi, ad un mero impegno di inculturazione, ma il suo specifico compito, sembra proprio essere quello di incentivare la curiosità, sostenere la capacità di osservare e di attivare vivaci interessi esplorativi.Come si vede il problema è vecchio quanto la scuola, ma le proposte di cambiamento e rinnovamento restano soltanto formule scritte . Per giunta trovano maggior spazio solo quelle meno significative e che comunque non vanno ad intaccare la struttura portante dell'intero sistema ormai acciaccato. Anzi la rigidità del sistema se non urgentemente corretto, lo porterà ben presto allo sprofondamento.“L'imprevisto atteso” 2che ha attraversato la scuola negli anni 70/80, ha dato il primo scossone. L'inserimento degli alunni “handicappati”, oggi definiti diversamente abili, ha fatto pesantemente scricchiolare il sistema scuola dimostrando come alcuni suoi elementi siano inefficaci ed obsoleti: la rigidità della classe che perdeva la sua omogeneità, la pletoricità di contenuti programmatici spesso inutili, la didattica trasmissiva uniforme ed uguale per tutti, i tempi di apprendimento definiti secondo scansioni annuali rigide e immodificabili e l'uso dei libri di testo, di scarso valore scientifico e sicuramente inutili, almeno per la scuola primaria.Del resto, si deve notare, che la presenza dell'alunno con difficoltà, ha costretto la scuola a tentare un’ evoluzione in ordine alla quale si è iniziato a pensare ad una scuola diversa: più completa nel tempo e nella didattica, più accogliente per tutti, dove l'accoglienza non si limita ad una festicciola d’ inizio anno, ma “è sistema ” metodo di lavoro complesso, è un modo di essere dell'adulto, è una idea chiave nel processo educativo. Nella nostra epoca, frastornata da stimoli confusi e da modelli consumistici dilaganti, abbiamo difficoltà a ritrovare il collegamento fra filosofia ed educazione, fra educazione ed istruzione, fra istruzione e organizzazione dei saperi, fra organizzazione dei saperi ed esperienze personali e – per chiudere il cerchio – fra esperienza personale e filosofia. Un metodo accogliente considera il quotidiano di una classe, come prova, come modello, come tentativo, come interrogazione sulla condizione umana, una interrogazione che rappresenta l'insegnamento primario universale da sviluppare nelle scuole”. Sono state chiuse le scuole speciali e le classi differenziali non in grado di perseguire gli obiettivi per cui erano state istituite. La qualità della scuola è migliorata nella misura in cui si è attivata una metodica di accoglienza ed è lì che i docenti hanno pensato ad una didattica differenziata, a strutture organizzative che non fossero la sola classe di riferimento. La legislazione stessa, soprattutto o quasi solo nella scuola dell'infanzia e primaria, ha recepito le istanze che provenivano dalla base ed ha stimolato l'innovazione sostenendo la realizzazione di forme organizzative diverse, puntando su alcuni principi quali: la flessibilità dell'intervento, didattico, la non prescrittività di contenuti, la necessità del lavoro di équipe, la trasversalità delle discipline come oggi ci viene richiesto anche dai dettami del documento di Lisbona che, per altro, ci suggerisce di far sempre riferimento ai quattro assi culturali sui quali ci richiama la comunità europea: all’asse dei linguaggi, a quello matematico, a quello scientifico/ tecnologico, a quello storico sociale, a cui abbinare le competenze: imparare a imparare, progettare, comunicare, collaborare e partecipare, agire in modo autonomo e responsabile, risolvere problemi, individuare collegamenti e relazioni, acquisire ed interpretare l'informazione. Tutto questo, purtroppo, si è innestato su programmi ormai vecchi. Anche laddove sono apparse nuove indicazioni per il curriculum, l'istituzione ha preferito rifugiarsi dietro l'impossibilità di affrontare qualsiasi innovazione per scarsità di mezzi ed ha utilizzato l'autonomia per effettuare una involuzione non modificando i contenuti ( dei quali fanno fede i libri di testo rimasti sostanzialmente immutati), limitando o abolendo qualsiasi forma di collaborazione tra docenti, riducendo il tempo scuola per concentrarlo solo nelle ore del mattino. Per altro si giustifica il mantenimento del cosiddetto “tempo pieno”, non per le esigenze del bambino o dello studente, ma “perché nelle famiglie lavorano entrambi i genitori” e quindi bisogna collocare i figli in qualche struttura. Mentre la scuola ingoiava la sua capacità innovativa si è affacciato alla sua porta un altro “imprevisto atteso”: lo straniero. Così come era avvenuto nel momento dell'accoglienza, inserimento, integrazione dell'alunno diversamente abile il sistema ha ripreso a scricchiolare. Ci sembra indispensabile aprire una parentesi su questo problema che potrebbe essere “il nuovo”, “l'imprevisto” che obbliga al rinnovamento e che forse può salvare la scuola.Potrebbe , tuttavia, essere “l'imprevisto” che la affossa definitivamente, se non accetterà di rivedere la didattica, il curriculum e l'organizzazione in funzione della nuova composizione del corpo studentesco.Da questo vogliamo partire per allargare gli orizzonti e, con buona presunzione, affrontare le linee tematiche per una proposta operativa e innovativa. La lettura di dati statistici, relativi alla frequenza scolastica degli alunni stranieri, non consente, spesso, di discernere, con precisione, ciò che la scuola effettivamente offre, ciò che è in grado o ciò che deve realizzare per affrontare l’inserimento e l’integrazione scolastica degli alunni non italiani. Tuttavia, ci pare di poter rilevare alcuni elementi importanti che ci consentono di formulare più di una ipotesi. Appare evidente che:
la popolazione scolastica del territorio preso in considerazione è sempre più multietnica e il tasso di iscrizione degli alunni stranieri a scuola è percentualmente molto più alto rispetto al tasso di iscrizione degli alunni italiani;
è’ in atto un costante incremento della popolazione straniera in ciascun grado di scuola;
è’ sempre più elevata la presenza di alunni stranieri provenienti dall’Europa, rispetto a coloro che provengono da altri continenti;
la scuola professionale è scelta dagli alunni stranieri in percentuale tripla rispetto a quanto non facciano i loro coetanei italiani.
Se ci si basa su questi dati di realtà, ci restauna sola possibilità che è quella dimettere in relazione alcuni elementi strutturali dell’organizzazione scolastica, con la presenza e la frequenza degli alunni stranieri, con particolare riferimento al tempo scuola e alla fruizione di servizi ad essa annessi, quali il servizio di prescuola , doposcuola, mensa ed altro.
Incontestabile rimane il fatto, che la scuola si è “conquistata reputazione e fiducia da parte delle famiglie straniere; le viene reso atto di aver saputo attivare un processo di forte coinvolgimento sociale, culturale e formativo nell’interesse dei loro figli”.
Ciò premesso è d’obbligo chiedersi se, e in che cosa, la scuola sia cambiata per l’accoglienza e l’integrazione scolastica dello straniero, quali siano le buone pratiche, che consentono a tutti gli alunni un percorso personalizzato a garanzia dell’uguaglianza delle opportunità di successo.
Il termine integrazione viene utilizzato con eccessiva facilità e in modo spesso equivoco per cui“occorre prendere le distanze dalla nozione di integrazione, o almeno dagli equivoci comportati dal suo uso comune, della sua pervasività nel discorso delle politiche dell'immigrazione. Il termine si muove tra un uso generico, a indicare qualunque positivo rapporto degli immigrati con la società ospite e significati molto connotati,che rinviano a modelli normativi più o meno prossimi a quelli della tradizione assimilazionista”.
Oggi è difficile pensare alla realizzazione di progetti d’integrazione culturale.
E’, certamente, possibile ipotizzare una scuola che punti decisa verso la convivenza democratica delle diverse culture presenti al suo interno. Nella scuola è più agevole, rispetto a quanto può accadere nella società, pensare ed agire per una serena convivenza multiculturale. La multiculturalità, tuttavia, è perseguibile solo se ogni cultura mostra ben chiari e definiti i suoi principi di riferimento, i valori ai quali non può sottrarsi o rinunciare senza essere menomata o sminuita o messa in subordine da altre.
La scuola, in particolare, se ne fa portatrice e non può prescindere dai valori universali e dai diritti dell'uomo, del cittadino e del bambino sanciti dalle carte internazionali.Chiarito questo, il resto ossia la pratica scolastica, dovrebbe diventare una semplice conseguenza applicativa.
Il condizionale è d’obbligo perché, troppo spesso, si pretende di attribuire carattere di buona pratica a qualsiasi intervento, parziale o complessivo senza avere delineato con chiarezza criteri, concetti e principi di riferimento.
E’ invalso, infatti, l'uso di utilizzare la terminologia, delle “buone pratiche” , abbandonando l'idea, forse un po’ inflazionata, della cosiddetta sperimentazione. D’altra parte l’autonomia scolastica consente e auspica che ogni istituzione imbocchi la via dell’innovazione, sulla spinta delle nuove esigenze che emergono dal rinnovato contesto sociale. Certamente gli stranieri sono portatori di nuove istanze. Ma non può essere considerata buona pratica, qualsiasi modalità di intervento senza criteri di riferimento e senza tenere conto dell'esperienza pregressa.
L’intervento improvvisato che non incide sulle strutture organizzative e non induce alcun cambiamento nel sistema, risponde, quasi sempre, a situazioni nate dal bisogno di far fronte ad un’emergenza. Certamente un’azione singola può essere utile, ma se non affronta radicalmente il problema, non può rientrare fra le buone pratiche.
Riteniamo che possa definirsi buona pratica quella modalità di intervento che, tenendo conto delle esperienze in atto o pregresse, propone interventi e soluzioni strutturali al problema, offre condizioni e situazioni di flessibilità tali da garantire a tutti il proprio percorso personalizzato.
La scuola, specificamente, nel porsi il problema dell'inserimento dello straniero, senza venir meno alla sua “mission” di educazione/istruzione, deve trovare la forza di rivedere la sua struttura organizzativa e didattica, in funzione di un contesto nuovo, radicalmente mutato, rispetto agli anni anche di un recente passato.
Restringere l’intervento in funzione o per il solo alunno straniero, comporta un alto rischio di marginalizzazione e pregiudica notevolmente la possibilità di un’ integrazione scolastica dello stesso.
Superata la fase dell’emergenza e della provvisorietà , si rende necessario, ora, passare alla istituzionalizzazione dell’intervento:
rivedendo l’organizzazione della scuola;
ripensando la didattica, la metodologia e i curricula;
rivalutando l’importanza e la funzione dell’equipe dei docenti;
utilizzando in modo diverso le risorse già esistenti: razionalizzando.
Non è sempre facile individuare principi e linee direttive su cui avviare il cambiamento e l’innovazione, per rendere meno rigide le strutture didattiche e organizzative.
Qualsiasi istituzione, e la scuola in primis, presenta il rischio di una forte vischiosità e resistenza al cambiamento, preferendo caricarsi di numerosi e piccoli interventi i quali risultano spesso, marginali ed estemporanei, piuttosto che procedere per cambiamenti strutturali più significativi, efficaci, duraturi e di maggior qualità.Possiamo, a questo punto, mettere in correlazione alcune variabili per verificare quanto e come sia accettato il cambiamento.Il tempo scuola dovrebbe essere una delle variabili significative, mentre al contrario è difficile ipotizzare che vi sia una corrispondenza fra cambiamento di utenza e di esigenze, per vedere realizzata una proposta da parte dell’istituzione, di un tempo scuola adeguato.
Pare, invece, in modo più evidente che la scuola mantenga la scelta del tempo di funzionamento, indipendentemente dall’utenza alla quale deve dare una risposta.
La distribuzione, infatti, dei modelli organizzativi di tempo scuola presenti sul territorio, non si discosta sostanzialmente dalla situazione che si potrebbe definire di pre- immigrazione. Lo si evince dal dato che fissa come significativo e di maggior rilievo, sia per la scuola primaria che per la scuola secondaria di primo grado, il cosiddetto tempo normale, che risale per tutti gli ordini di scuola ad almeno dieci anni fa.
La scelta del tempo scuola non è sempre demandata alle famiglie, ma la scuola autonomamente delibera e definisce un suo modello, spesso indipendentemente dalle istanze esterne in forte mutamento. O comunque con l’evolversi della situazione non ha avuto la forza e forse la capacità di riproporsi ed adeguarsi. A questo punto è lecito e doveroso porsi una serie di domande ed entrare nel merito del rapporto scuola- famiglia ovvero delle due agenzie educative di prima socializzazione. Il processo di integrazione passa necessariamente dalla scuola, ma se questa non si è adeguata alla nuova domanda, rischia di essere l’agenzia che riproduce gli stereotipi, le marginalizzazioni, le esclusioni, le ghettizzazioni, spesso, presenti nel contesto sociale.
Facile e forse troppo semplicistico affermare che se non è cambiato il tempo scuola non è cambiata neppure l’organizzazione della scuola stessa. E’, comunque, lecito chiedersi fino a che punto il modello scuola dal punto di vista dell’educazione si pone come complementare e sussidiario al tempo dell’educazione famigliare.
Non pare assolutamente vero che un tempo scolastico più breve offra maggiori opportunità educative alla famiglia. Del resto è fin troppo scontato che non è la quantità, ma la qualità del tempo che rende significativo l’intervento delle due agenzie educative.
Nello specifico la scuola è certamente oggi consapevole delle problematiche che l’hanno investita: “percepisce l’importanza di riconsiderare globalmente la propria offerta formativa, di riorganizzare l’intero sistema di fruizione dei propri servizi, di aprirsi alle più ampie collaborazioni con gli enti locali e con la comunità locale” .
La presenza degli stranieri, nei vari ordini di scuola, è un dato di fatto che supera ormai l’emergenza e l’episodicità, ma assume tutte le caratteristiche di un elemento strutturale.
Scrive ancora Gabriele Ringhini: “Nella scuola è in atto un processo di ricomposizione sociale dei propri utenti con forti e crescenti accentuazioni della componente straniera, percentualmente già ora presente sempre in misura superiore ai coetanei italiani, ad eccezione delle superiori.
Contestualmente si sta ripresentando l’annosa questione della discriminazione fruitiva ai livelli più alti dell’istruzione potenzialmente a danno di soggetti più deboli e marginali, quali rischiano di essere gli alunni stranieri”.
L’affermazione pone un problema di assoluta gravità perché riguarda l’uguaglianza delle opportunità educative . la quale non può, ancora una volta, essere uguaglianza di possibile fruizione del servizio, ma che deve necessariamente realizzarsi come uguaglianza di opportunità di riuscita.
L’osservazione sopra esposta è suffragata dai dati concernenti l’iscrizione degli alunni alle scuole secondarie di secondo grado.
Gli italiani nella secondaria di secondo grado rappresentano la quasi totalità rispetto alla quota dei coetanei stranieri. Per altro gli stranieri frequentanti le scuole professionali regionali (della Lombardia) sono in percentuale notevolmente superiore rispetto ai loro compagni italiani.
La scelta della scuola superiore è dettata, certamente, da una molteplicità di fattori.La famiglia straniera, spesso in condizioni economiche disagiate, predilige percorsi scolastici più brevi e che offrono maggiori garanzie per la scelta del lavoro futuro.
Si possono tuttavia formulare altre considerazioni. Prima fra tutte, la concezione che, nel senso comune, hanno le scuole professionali, ritenute portatrici di percorsi di studio più semplici e facilitati. D’altra parte l’attività di orientamento che la scuola secondaria di primo grado pone in essere è, per lo più, quella di indirizzare gli alunni ritenuti “meno capaci” verso questo ordine di scuola piuttosto che verso altri, dequalificando nelle aspettative e, conseguentemente nella realtà, l’istituto professionale rispetto all’istituto tecnico o al liceo.
Emblematico rimane il fatto che lo studente italiano prediliga percorsi proposti da istituti tecnici o licei e lo straniero ripieghi in percentuale altissima verso l’istituto professionale rendendo obbligatorio più di qualche dubbio sulla garanzia delle opportunità di riuscita.
Con questo non si vuole accusare la scuola superiore di discriminazione poiché questa è l’ultimo anello di un percorso che inizia con la scuola dell’infanzia, si consolida nella scuola primaria e secondaria di primo grado e dovrebbe concludersi, con l’estensione dell’obbligo scolastico. nella scuola secondaria di secondo grado.
I dati di più ricerche mostrano in modo evidente la crescita tendenziale della presenza degli alunni stranieri che si manifesta in misura pressoché doppia rispetto alla presenza degli alunni italiani.
La prima conclusione di fronte al fatto, salvo improvvise inversioni di tendenza è che entro pochi anni gli alunni stranieri saranno la maggioranza di coloro che frequenteranno la scuola.
A differenza di quanto accaduto nella prima “ondata” d’immigrati il maggior numero di stranieri proviene dall’Europa e sono giovani al di sotto dei 40 anni. Lo scenario demografico che ne emerge, pone problemi di notevole rilevanza per le istituzioni e a livello di organizzazione della convivenza civile. La scuola in modo particolare è chiamata a rivedere la sua offerta formativa in risposta alle mutate esigenze degli alunni e delle loro famiglie.
“D’ora in poi la scuola non potrà più essere quella di prima, quella di sempre ricorrendo ad aggiustamenti di un sistema che tende a riprodursi pur nell’aggiornamento delle sue attività”. Si tratta di cambiare proprio il sistema scuola” .
Molti istituti si sono attivati cercando di dare una risposta alle esigenze emergenti.
Si sono dati strutture che prevedono la presenza di docenti che svolgono una “funzione strumentale”, di docenti che fanno parte di commissioni intercultura, di docenti che in questa veste hanno attivato linee di collaborazione con agenzie ed enti esterni alla scuola impegnati in percorsi formativi in ambito interculturale. I protocolli di accoglienza di queste scuole precedono, spesso, modalità e criteri per l’inserimento degli alunni stranieri. Sul piano didattico la pratica di sviluppare attività attraverso progetti garantisce in parte percorsi interculturali. Temiamo, senza nulla togliere alla qualità di ogni intervento, per quanto ne sappiamo, che questo fare non sia adeguato a cambiare il “sistema scuola” nel rimettere in moto un processo di “riscolarizzazione”.
Sembra opportuno, con un po’ di presunzione, offrire , quindi, le nostre riflessioni per una prospettiva futura del “sistema scuola”.
Non è possibile, ribadiamo ancora, accettare come “buona pratica “ qualsiasi intervento, ma è necessario fare riferimento a criteri e principi che consentano di fondare l’organizzazione scolastica e la pratica didattica su basi meno empiriche.
La presenza e l’inserimento di una tipologia di alunno “diverso” rispetto all’idea di individuo “normale” manda in crisi la rigidità del sistema scuola. Ciò è avvenuto, come abbiamo ricordato, già quarant’anni fa , quando si iniziò ad inserire l’alunno portatore di handicap.
Le strategie poste in atto hanno consentito di sperimentare varie modalità di intervento didattico metodologico e la pratica scolastica ha eliminato, di volta in volta, per fallimento, per scarsità di risultati, strutture ritenute inizialmente efficaci. Così sono state chiuse le scuole speciali, sono state abolite le classi differenziali e si è registrata la scarsa efficacia della pratica “del portar fuori” l’alunno per la cosiddetta attività di recupero.
Un altro alunno diverso si affaccia ora alla porta del servizio scolastico ed il rischio che l’istituzione corre è ancora quello di proporre interventi che, mutatis mutandis, ripercorrano la stessa via, ormai abbandonata, per l’integrazione degli alunni portatori di handicap.
Il postulato, da cui partire, riguarda l’attuale organizzazione dei vari ordini di scuola che rigidamente predeterminano il percorso degli alunni, omogeneizzandolo, anno per anno e rendendolo uguale per tutti, definendo classe di appartenenza, programmi di classe, insegnanti di classe ecc. Lo sforzo di intervento didattico operato dai docenti più sensibili, non ha modificato minimamente il modello organizzativo del sistema e nonostante gli sforzi, consapevolmente o inconsciamente tende ad escludere le fasce più deboli e a non dare risposte alle aspettative dei più capaci. Va rivista, quindi, la funzione della scuola affrontando, senza remore, gli aspetti culturali, gnoseologici, epistemologici e psicologici fondamentali nel rispetto di un’etica volta a superare le forme di egocentrismo e individualismo esasperato per praticare valori di reciproco rispetto, partecipazione, collaborazione, impegno competente e responsabile, cooperazione e solidarietà.
Sul piano culturale è fondamentale puntare allo sviluppo di tutti i tipi di linguaggio e di padronanza delle conoscenze e delle abilità, comprese quelle metodologiche di indagine, abbandonando la ridondanza di contenuti spesso insignificanti o comunque non tra loro collegati.
La conoscenza, per tutti, bambini, adolescenti, adulti scaturisce necessariamente da una continua negoziazione operativa con l’esperienza. La gnoseologia e l’epistemologia insegnano che le conoscenze (il sapere) devono essere radicate sulle esperienze (il fare e l’agire). Il risvolto sociale che ne consegue è quello di assicurare a tutti l’uguaglianza delle opportunità intese come opportunità di riuscita, finalità raggiungibile solo se si determinano le condizioni culturali, relazionali, didattiche ed organizzative idonee a rimuovere qualsiasi ostacolo per il pieno sviluppo della persona umana. Tocca, anche, alla scuola porre, in questo modo, per l’alunno, le basi per l’integrazione effettiva della personalità e per un’ immagine realistica e positiva del sé.
Sui principi si può essere d’accordo e quanto sopra espresso probabilmente potrebbe essere sottoscritto ed esplicitato in tutti i piani dell’offerta formativa, ma spesso la pratica scolastica se ne discosta. Il rischio di discriminazione nella scuola è un pericolo reale, insito nella sua organizzazione e va al di là degli intenti dei singoli insegnanti. Garantire pari opportunità di riuscita significa in prima istanza giungere alla realizzazione di piani personalizzati per tutti gli alunni/studenti.Il percorso obbligatorio che ogni studente oggi deve affrontare, comprende necessariamente attività disciplinari di classe.
Facendo nostre le analisi e i suggerimenti della letteratura pedagogica e didattica più avanzata, vorremmo introdurre il discorso sulla dinamica, spesso disattesa, di come si gestisce la classe scindendola in gruppi nel nome e nel segno dell’attività laboratoriale a qualsiasi livello e a partire da qualsiasi disciplina. La classe con allievi di pari età può essere in sé positiva, ma penalizza le punte estreme: i migliori e i peggiori. Bisogna quindi prevedere una modalità di lavoro che si svolga anche per gruppi variamente aggregati in attività di laboratorio.
La scuola, dunque, deve alzare il sipario e dar voce alla scuola dei laboratori evitando di riprodurre, sotto altro nome, pratiche di lezione frontale, con la sola variante di gruppi più ridotti di alunni.
La letteratura scientifica in campo educativo, si trova concorde nell’assegnare alla didattica laboratoriale una forte efficacia per combattere il virus del nozionismo e della dispersione che spesso affligge la scuola. La stessa deve ripensare i suoi spazi didattici ed assicurarsi un assetto organizzativo di stampo modulare: aperto, flessibile, polivalente.“Se si vuole evitare che la classe si tramuti in un ambiente relazionale e cognitivo totalizzante autarchico, dovrà essere fatta sistematicamente interagire con altri spazi interni (di interclasse) ed esterni (le zone attrezzate all’aperto e le aule didattiche decentrate dell’ambiente naturale e socialculturale)”.
La presenza di un’ utenza così diversificata, invita la scuola ad abbandonare l’immagine diun’ istituzione preposta alla conservazione e alla trasmissione dei saperi ufficiali, per rivestirsi di una nuova immagine culturale che la proponga come strumento di indagine, di analisi - sistematizzazione (e reinvenzione) delle conoscenze contenute nei programmi nazionali.
La struttura che proponiamo è, quindi, quella che prevede le “open classroom, e una pluralità di laboratori. Il laboratorio, infatti, è l’ambiente della’interdisciplinarità, è la sede degli assi culturali trasversali, non rintracciabili dentro gli statuti disciplinari dei programmi scolastici. Non è ovviamente solo trasversalità, perché l’attività didattica collaborativa dei laboratori, assicura presenza e sviluppo anche a tutte le aree disciplinari. Il modo di procedere nella didattica laboratoriale non è per contenuti, ma per concetti, per quadri interpretativi ancorati alla pratica, è sviluppo di capacità di sistematizzazione in discipline, delle conoscenze acquisite.
La scuola dei laboratori ha il merito di trascendere le pratiche di insegnamento–apprendimento-valutazione diffuse e rinchiuse in rituali ormai obsoleti: la classe come entità anagrafica con scarse possibilità di socializzazione e poca efficacia per gli apprendimenti, i programmi uguali per tutti e i libri di testo mediocri e, per la scuola primaria, quasi sempre inutili. Al contrario il laboratorio progetta e sperimenta le proprie unità di apprendimento a base disciplinare e i propri progetti didattici a base interdisciplinare tenendo conto della complessa rete delle variabili umane e non. In questo modo, la scuola della cattedra si trasforma in laboratorio di apprendimento. Tutta l'attività didattica avviene in forma laboratoriale: sono gli alunni che lavorano per apprendere i concetti relativi al curricolo comune; si rende necessario diversificare i curricoli (piani educativi personalizzati) a seconda dei livelli, dei ritmi, degli stili di apprendimento dei singoli. Si garantisce la possibilità ad ogni alunno di perseguire obiettivi che meglio rispondano alle proprie esigenze. Questo lavoro, per essere efficace, deve essere portato avanti dagli alunni individualmente o in gruppi, indipendentemente dalla “classe” di appartenenza.Ne consegue che il laboratorio non è attività aggiuntiva, ma è l’attività della scuola.”Il modello di scuola che emerge è un modello personalizzato e come tale il più efficace: il solo capace di assicurare il successo apprenditivo e formativo a tutti i singoli alunni, quali che siano i loro livelli di sviluppo, i loro ritmi ed i loro stili di apprendimento.
Si realizza una scuola su misura degli alunni iperdotati, normodotati, svantaggiati, in situazioni di handicap”(U. Tenuta) o, per l’appunto, stranieri.
L’inversione di metodologia e didattica esige un cambiamento anche nell’ organizzazione che non può più essere per classi, ma richiede una capacità di progettazione che consente alle équipe dei docenti di approntare strumenti di programmazione per raccordare il “programma” nazionale o le indicazioni, alle esigenze del locale.
Il contesto operativo in cui l’alunno si trova è sempre in presenza del gruppo, quasi mai si può risolvere in interventi individuali fuori dal contesto in cui opera abitualmente, sia esso la classe, il modulo o altro, questo perché la personalità dell’alunno passa attraverso il gruppo.
Anche la distribuzione delle risorse esige criteri di assegnazione diversi dagli attuali.
Le risorse, in termini di personale, sono assegnate alle istituzioni scolastiche sulla base del numero delle classi e delle cattedre necessarie a coprire il tempo scuola. L’assegnazione di un organico funzionale consentirebbe o impegnerebbe la singola istituzione a rivedere la propria organizzazione, il proprio tempo scuola in rapporto alle esigenze di cui è portatrice la nuova utenza. L’assegnazione di personale aggiunto in base a progetti è stata efficace in prima istanza, ma il consolidarsi del flusso migratorio con il conseguente cambiamento della fisionomia dell'utenza, richiede che fra i criteri di assegnazione, si individuino nuove formule che tengano conto degli indici di difficoltà, per ora attribuiti solo alle zone riconosciute a rischio, garantendo maggior sicurezza e continuità di disponibilità. Toccherà, poi, alla scuola progettare percorsi e programmi che favoriscano la personalizzazione degli interventi. Ottenere ore aggiuntive o un insegnante distaccato per l’inserimento degli stranieri porta spesso ad avvallare pratiche di nessuna efficacia didattica che si risolvono nell’aggregare alunni di etnie ed età diverse per un rinforzo dell’apprendimento della lingua italiana. L’apprendimento della lingua come di tutte le conoscenze, l’acquisizione delle abilità e delle competenze previste dai programmi dei vari ordini di scuola, avviene sempre nel contesto del gruppo di appartenenza.
Il mondo della nuova scuola deve spostare l’asse attorno a cui ruota, dall’insegnamento all’apprendimento e creare le condizioni ottimali perché l’alunno/studente sia motivato ad apprendere.“Soltanto la didattica plurilaterale che popola i laboratori e’ in grado di tenere conto della vitalità e della generatività educative presenti nelle diverse teorie dell’apprendimento, che tendenzialmente postulano il sistematico ricorso ad una metodologia plurale nel fare scuola quotidiano… nei laboratori si creano allievi Omerici. Qual e’ la carta d’identità del piccolo Ulisse che popola la scuola dei laboratori? Uno scolaro serio, concentrato, impegnato a dilatare i propri orizzonti di conoscenza e a esplorare mondi immaginari che assapora una scoperta dopo l’altra e che autonomamente sceglie i propri itinerari di conoscenza e di creatività”.
Con queste affermazioni abbiamo introdotto quelli che a nostro parere sono gli elementi positivi che possono indurre la scuola ad avviarsi verso insegnamenti profondi lontani dalla banalità del quotidiano, del ripetuto. Immaginiamo come Pennac la scuola, la classe, il gruppo alunni come una orchestra: “ogni studente suona il suo strumento, non c'è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l'armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo,è un'orchestra che prova la stessa sinfonia. E se hai ereditato il piccolo triangolo che sa fare solo tin-tin, o lo scacciapensieri che fa soltanto boing boing, la cosa importante è che lo facciano al momento giusto, il meglio possibile, che diventino un ottimo triangolo, un impeccabile scacciapensieri, e che siano fieri del contributo conferisce all'insieme. Siccome il piacere dell'armonia li fa progredire tutti alla fine anche il piccolo triangolo conoscerà la musica, forse non in maniera brillante come il primo violino, ma conoscerà la stessa musica”.
Prende forma ora un'idea di scuola aperta vivace dove il fare è propedeutico all'apprendere, il conversare è la base di una didattica improntata all'ascolto del discente. “Ne consegue che l'approccio con i ragazzi è inevitabilmente declinato su di loro, perché sono vivi, con noi, e non sono gli studenti dei manuali, ma sono queste facce e queste voci, queste reazioni e queste domande, queste risposte... tutte uniche e tutte diverse...l'originalità di ciascun bambino (le proprie motivazioni, i propri gusti, ecc.) è in questo caso , la principale risorsa di un processo insegnamento/apprendimento”.
Funziona la didattica conversazionale?
Crediamo fermamente che sia il punto di partenza utile e necessario per spostare l'asse dell'istruzione dall'insegnamento all'apprendimento. Serve ad innescare una forma di teach back che porti lo studente fuori dalla marginalizzazione a cui il sistema lo ha condannato.Ciò implica, necessariamente, il prendere coscienza che la funzione della scuola è cambiata: dalla trasmissione alla rielaborazione, concetto per altro già espresso dalla legge delega 477/73 e relativi decreti. Nelle nostre aule hanno fatto ingresso tumultuoso allievi che, per provenienza sociale, economica, culturale, etnica, sono privi della tradizionale etica dello studente, di quell'insieme, cioè, di regole comportamentali, di abitudini disciplinari e di atteggiamenti mentali che per secoli avevano consentito alla scuola di funzionare e agli insegnanti di esercitare un'autorità socialmente riconosciuta e legittimata. Se è cambiata la funzione della scuola anche il docente deve assumere nuova competenza.Non più colui che insegna, ma colui che guida, che stimola, che discute, che sorregge, che vive con lo studente e garantisce il rispetto delle regole e il perseguimento di obiettivi condivisi.Non vorrei dare l'impressione che accettare la conversazione, la discussione, il lavoro in comune comporti il venir meno a regole di comportamento e di rispetto verso gli altri. Diremo che è esattamente il contrario. Non è facendo i “piacioni” o assumendo mode e atteggiamenti tipici dei giovani che ci si accattiva la loro attenzione e il loro interesse.Nella scuola di Barbiana i ragazzi stavano tutto il giorno a scuola a lavorare, discutere studiare. La conversazione esige rispetto degli altri, impegno e collaborazione. Presuppone, comunque, che l'adulto abbia qualcosa di valido da proporre ai giovani e che esistono differenze tra il comportamento dei giovani e degli adulti. “ecco perché è necessario che gli insegnanti evitino di imitare lo stile dei giovani nel vestire e nel parlare...gli adulti nella scuola dovrebbero impegnarsi ad insegnare ai giovani un modello d'interazione civile.
Speriamo non si colga una contraddizione in quanto stiamo affermando: la discussione, il laboratorio, l'accettare forme di teach back esigono serietà di impegno, professionalità congruenza con gli obiettivi di apprendimento. L'attuale sistema, purtroppo, assume ancora, per dirla con Ivan Illich, la forme di imbuto didattico. Affermiamo al contrario che a queste è necessario “sostituire quella del loro contrario istituzionale: trame, tessuti didattici che diano a ognuno maggiori possibilità di trasformare ogni momento della propria vita in un momento di apprendimento, di partecipazione e di interessamento”.
Da tempo i saperi scolastici non portano più l'aureola di verità indiscusse (le "materie"), messi in crisi non solo dalla loro esplosiva estensione e frammentazione, ma anche dall'invadenza di iPhone, iPad, smart phone, nonchè di videogiochi, di social network, che ne fanno una fonte di apprendimento attraente.A ciò si aggiunge la coscienza nei giovani che la scuola non rappresenta più la via sicura per ritrovare un lavoro o una professione, che li possa liberare dalla precarietà e dal bisogno. Il panorama scolastico è completamente cambiato, siamo di fronte a classi eterogenee in cui gli allievi si presentano con differenze socio-culturali, linguistiche, affettive cognitive e comportamentali anche molto profonde; la missione della scuola, come sempre, non è di sopprimere le differenze, ma di farsene carico.Quali misure devono essere adottate perché le differenze iniziali non si aggravino? Storicamente sono state date due risposte: la differenziazione strutturale creando filiere parallele per risolvere le differenze esistenti nell’apprendimento scolastico, è la soluzione che, se ha pur dato risultati inziali, non ha fatto altro che trasformare le diversità in disuguaglianze. La pedagogia, al contrario tiene insieme gli allievi e fornisce percorsi di apprendimento differenziati considerando la diversità una risorsa. Da un lato si cerca l’omogeneità dall’altro si vuole gestire l’eterogeneità, fermo restando il concetto di istruzione o meglio il processo educativo che la scuola attiva attraverso l'istruzione. Ci torna utile qui la definizione data da Bruner: “L'istruzione consiste nel guidare il discente attraverso una serie di successive formulazioni di un problema o di un corpo di conoscenze, secondo un ordine di progressione, che accresca la sua capacità di afferrare, trasformare e trasferire ciò che egli apprende.Se ci sembra tuttora adeguata questa definizione che è carica di elementi educativi dobbiamo anche tener conto delle mutate condizioni della situazione sociale e scolastica del panorama odierno rispetto a quello conosciuto da Bruner. Abbiamo più volte richiamato l'attenzione sulla necessità di spostare l'attenzione dall'insegnamento all'apprendimento e questo ci porta a mostrare in parallelo come la realtà richieda cambiamento: la nostra scuola si caratterizza ancora per un apprendimento imposto circoscritto in uno spazio reale, oggi ci si richiede di attivare motivazione all'apprendimento in modo da rendere partecipi e creativi gli studenti in un contesto non più reale, ma virtuale. Il controllo esterno di voti, esami, punizioni, bocciature, ripetenze va sostituito con forme di autocontrollo e feedback continui. Alla immobilità e ripetitività del passato fa riscontro una circolazione illimitata di informazioni cui viene data risposta immediata anche in termini di autovalutazione a fronte di una istituzione caratterizzata da pratiche lente. Se il testo scritto non può perdere la sua importanza perché invita alla riflessione è tuttavia caratterizzato da una ridotta condivisione contrariamente all'importanza che hanno assunto le interfacce grafiche e l'intensità di condivisione sottoposta, in tempo reale, a continui feedback . Crediamo che si debbano abbandonare o comunque limitare le conoscenze disciplinari e forme di apprendimento/consumo per puntare alle competenze da perseguire con forme di apprendimento partecipato senza limiti; non più pear to pear , ma many to many. Si impara scoprendo, formulando domande, enunciando e provando ipotesi, studiando in coppia e in gruppo. Per questo è indispensabile rompere la rigidità della classe, uscire dal sistema riduttivistico di presentazione lineare delle discipline che induce a forme prescrittive di insegnamento limitando di fatto la variabilità dei modelli e dei processi di sviluppo individuali. Dobbiamo accettare la complessità come elemento fondamentale e fondante dell'apprendimento. Pensiamo ad una forma di deuteroapprendimento o di apprendimento ad apprendere o ancora all'esistenza di un apprendimento che organizza se stesso. Il raggiungimento di questo obiettivo comporta la necessità di porre l'attenzione anche sui modelli organizzativi della scuola, sulle metodologie e sulla didattica e l'improrogabilità di una proposta adeguata di curricula (preferiremmo dire di indicazioni per la costruzione di curricula) per tutti gli ordini di scuola. Dall’esperienza personale alla scoperta di nuovi orizzonti. La scuola procede alla formalizzazione delle esperienze valutando la qualità dei saperi esperienziali, per inserirli in quadri concettuali formalizzati. Il percorso didattico parte quindi dai dati esperienziali degli alunni, dalle loro domande, dalle loro mappe concettuali, per essere poi collocati in quadri concettuali formali secondo la corretta epistemologia delle discipline. Il linguaggio dei ragazzi segue stili diversi: è visivo spaziale, verbale, percettivo motorio e si scontra spesso con quello unidirezionale utilizzato dall'insegnamento scolastico che è quasi esclusivamente simbolico ricostruttivo e che ne mortifica spesso la curiosità . “La volontà di apprendere diventa un problema solo in determinate circostanze, come quelle di una scuola in cui si impone un programma, gli studenti sono privati di ogni iniziativa, la linea da seguire è rigorosamente segnata“. L'autorevole affermazione di Bruner ci costringere a rimettere in gioco il modello istituzionale della scuola a partire dalla didattica. Se ne esclude una didattica trasmissiva vincolata dai contenuti delle carte programmatiche, ma richiede aderenza all'esigenza del discente e postula la necessità di formule laboratoriali dove sia possibile ipotizzare, discutere, mettere in relazione provare e verificare. Una tale didattica mette in discussione l'organizzazione stessa dell'attività scolastica che non può più essere scandita da orari frammentari: una catena di montaggio che non tiene conto dei tempi di apprendimento dei singoli. E' la ricerca, il lavoro di gruppo su progetti, la produzione di “opere“ che rende significativo l'apprendimento. Oggi si parla giustamente di cooperative learning individuando e sfruttando all'interno dei gruppi di lavoro la capacità e le specificità di ognuno. Gruppi di alunni quindi che lavorano di comune accordo alla realizzazione di un progetto. Questo però richiama la necessità che, per contro esista un team teaching composto da docenti con competenze diverse che unitariamente e in forma paritaria concorrano e sorreggano la realizzazione del lavoro degli studenti secondo la correttezza epistemologica delle discpline. Una visione sistemica dell'organizzazione ci porta a esigere, a questo punto, che si esca dalla ristrettezza del gruppo classe per una formula più aperta, maggiormente flessibile e che offra più possibilità di socializzazione e di realizzazione di progetti. Stiamo ovviamente ipotizzando una scuola aperta, pensiamo alle open class- room, ad una scuola dei laboratori. In questa scuola che mantiene come prima finalità l'educazione, i saperi disciplinari, la didattica e l'organizzazione si incontrano e si legano a vicenda. La didattica conversazionale esige tempi lunghi, non frammentari, esige che “si perda tempo“ secondo un concetto che possiamo far risalire a Rousseau. “Ma il perdere tempo diviene il criterio guida , mentre nella frenesia contemporanea le anticipazioni e le accelarazioni sembrano essere il traguardo di genitori e di non pochi docenti“. La didattica conversazionale esige tempo, accetta discussioni, valuta l'errore e lo sfrutta come punto di partenza per andare oltre l'ostacolo, è didattica che aspetta l'informazione di ritorno per poter proseguire. Il teach back a cui è soggetta la porta a procedere non in forma lineare ma secondo una rete concettuale. Tale modo di procedere non consente di prevedere fin dall'inizio l'intero percorso che alunni e docenti dovranno affrontare, l'imprevisto, come l'errore, accolto come elemento di stimolo consente di ampliare la rete di relazioni senza particolari vincoli. La programmazione in questo caso è significativa, ma ha valore se fatta a posteriori. Il concetto esige altri approfondimenti che esulano dalle nostre riflessioni, tuttavia se il percorso non è lineare è necessario rivedere l'organizzazione intera del curricolo che diviene espressione di processi di cambiamento, riformulandosi e modificandosi continuamente. Si viene cioè a cambiare continuamente il punto di arrivo in rapporto ai processi messi in atto dai soggetti. E' l'atteso imprevisto che trova piena cittadinanza in questa scuola che andiamo via via proponendo. Cambia la didattica che impone una revisione del concetto stesso di curriculo che a sua volta, a questo punto, rimette in gioco l'organizzazione della scuola. Non esiste una formula predefinita per l’organizzazione, ma occorre sempre necessariamente “contestualizzare”. Crediamo che l’organizzazione non sia più configurabile in forma piramidale strutturalmente stabile e funzionalmente adeguata. Gli elementi del sistema scuola vissuti come indipendenti l'uno dall'altro hanno portato ad un irrigidimento. Purtroppo nella scuola (ma direi ovunque) emerge un pesante radicamento e la persistenza di una visione statica dell’organizzazione, con finalità immutabili date una volta per tutte. Al contrario noi riteniamo, parafrasando malamente Luhman, che l’organizzazione vada vissuta come condizione antropologica, ecologica, in cui la catena decisionale, come l’interazione verticale, sono strumenti dell’organizzazione stessa da impiegare all’occorrenza, è una opportunità, o meglio è un vincolo ricco di opportunità, evolutivamente imprevedibile non riducibile ad un modello standard. L'organizzazione è processo costruttivo che nella sua evoluzione consente di far emergere qualità nuove e mantenere quelle esistenti. La dinamica organizzativa è quindi un motore di cambiamento continuo. L’ambiente innesca aggiustamenti attivi e perturbazioni che determinano una coevoluzione di sistemi viventi e del loro ambiente. Appare chiara quindi l'oziosità del dibattito attuale sulle formule organizzative richieste e a volte imposte da norme falsamente interpretate accettate o subite da dirigenti e insegnanti. Ogni organizzazione, essendo un processo evolutivo, è sempre una approssimazione, una provvisorietà, una tensione ad “addomesticare il caos ambiente”. La scuola ha paura di accettare questo e pretende di bloccare l'organizzazione su modelli stereotipati che forse hanno garantito sicurezza nel passato, ma che non sono più riproponibili alla luce dei cambiamenti che abbiamo lungamente sopra descritto. Le differenze, le ridondanze, le erranze che dovrebbero assumere il ruolo di moventi e motori sono allontanate e negate perché alterano l'ordine costituito. E' il rifiuto dell'imprevisto. Siamo di fronte a un problema di assenza di sensibilità alle differenze e disattenti al peso delle conseguenze che ne possono derivare. Siamo di fronte alla assenza di una cultura della progettualità. La scuola tende ad assorbire le incertezze, non le accetta come perturbazione e quindi non evolve. Anzi lontano da questi presupposti l'organizzazione diventa causa di omologazione di pratiche e saperi. I problemi di un nuova organizzazione, di modulo basata su una equipe di docenti con pari dignità, mettono in discussione diverse soluzioni operative adottate (insegnante prevalente e/o tuttologo, mancata equiparazione delle discipline, tempo scuola e calendario scolastico inadeguato …) Non è questo il luogo per affrontare i modelli organizzativi a cui la scuola può fare riferimento, ma certamento vogliamo ribadire la nostra convinzione che sia meglio affidarsi ad una equipe di docenti che a un insegnante unico/prevalente: offre molti più risultati una didattica aperta alla partecipazione e all'iniziativa degli studenti che una formula trasmissiva unidirezionale. L'attività laboratoriale è la base di ogni apprendimento ed infine è necessario un tempo disteso che occupi mattina e pomeriggio, per cinque giorni settimanali, in cui lavorare e studiare per progetti, senza l'assillo del cambio ora, della verifica e del compito da eseguire a casa. Gli strumenti tecnologici oggi a disposizione consentirebbero agli studenti di occupare proficuamente il tempo scuola senza doversi sobbarcare poi obbligatoriamente ore di studio a casa. Discorso a parte meriterebbe la ridefinizione dell'attività di insegnamento. Non crediamo sia questo il luogo. Certamente è impensabile che i docenti continuino la loro attività secondo una organizzazione, un orario di insegnamento e di lavoro quali sono prevsti dai contratti attuali.
Pach Adams uscito da un ospedale psichiatrico, in cui era stato in cura, all'osservazione di una collega amica che sottolineava il buon lavoro svolto dai medici per curarlo risponde: “Non i medici, ma i pazienti“.
Appeso alle pareti di una scuola durante una manifestazine studentesca è apparso uno striscione con questa scritta: “Non siamo il problema, siamo la soluzione“. Forse è questa la nuova ottica da cui, come operatori scolastici, ci dobbiamo porre.

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